Un paio di jeans, una coroncina di fiori in testa e nient’altro. È così che andava in guerra Oksana Shachko, anche quando doveva affrontare chi di divise e armamenti se ne intendeva molto di più. In alcune foto il suo corpo magro e minuto, seminudo, è strattonato, immobilizzato, trascinato da braccia forti, spesso maschili, che esercitano un potere conferito dall’alto, dalla legge. Ma il suo corpo non fa mai tenerezza: è come se possedesse una forza non misurabile quantitativamente, non contrapponibile a quella militare, eppure uguale e contraria. In un sostrato non fisico. Lì dove prendono forma i principi, le ideologie, i diritti talvolta.
Il corpo di Oksana, quel corpo combattente e coraggioso, è stato trovato senza vita lo scorso lunedì, 23 luglio. Pare si sia trattato di suicidio. Aveva 31 anni. Era nel suo appartamento di Parigi, dove nel 2013 aveva trovato asilo politico assieme ad alcune sue colleghe di Femen. E porta la firma di un’altra attivista di Femen, Oleksandra Shevchenko, uno dei commenti più toccanti sulla vicenda: “Oksana Shachko, una delle più importanti donne del nostro tempo. Una delle più grandi guerriere che hanno combattuto contro l’ingiustizia della società, e ha combattuto per se stessa e per tutte le donne. Oksana ci ha lasciati ma lei è qui e dappertutto. È in ognuno di noi. È nella storia del femminismo”.
Nel 2014 Oksana aveva smesso di combattere con Femen, il movimento che aveva contribuito a creare alla giovanissima età di 21 anni. Nato nel 2008 in Ucraina per denunciare il sessismo e le discriminazioni contro le donne, il movimento è diventato globale, le attiviste riconosciute a livello internazionale, anche per le azioni eclatanti contro leader politici come Putin o Berlusconi. “Our Mission is Protest! Our Weapon are bare breasts!” si legge nel manifesto del gruppo. Usare un simbolo sessuale come il seno per combattere contro il sessismo, una scelta totalmente iconoclasta, “sextremista”, come la definiscono loro, un modo per riappropriarsi del proprio corpo superando i simbolismi in cui è costretto dal patriarcato.
Una modalità quasi ossimorica e per molti incomprensibile, ma nella biografia di Oksana le apparenti contraddizioni in qualche modo tornano. In un’intervista al magazine francese Crash, ha raccontato di come, spinta dai suoi genitori, abbia iniziato a dipingere e studiare icone religiose già all’età di 10 anni. A 13 sosteneva di voler entrare in monastero. I suoi genitori si sono opposti fermamente e a quel punto lei ha cominciato a interrogarsi sul significato della fede: “Pensavo che i miei genitori sarebbero stati contenti della mia decisione, non ho nemmeno pensato di chiedere il loro permesso. Ma per me è stata una grande sorpresa scoprire che mia madre vedeva questa cosa come una tragedia, ha pianto e mi ha chiesto di non andarmene. In quel momento ho iniziato a pensare al significato di credere. È stato un grande paradosso per me. I miei genitori sono religiosi, credono in Dio, vanno in chiesa. Ma rifiutano di vedermi diventare suora. Ho iniziato a cercare una risposta alle mie domande. Passò un anno, passarono due anni e io divenni atea. Alla fine, capii che non c’era posto per Dio nella vita”.
Ma è a quelle immagini del suo passato e della sua infanzia che ha guardato di nuovo, quando nel 2014 ha smesso di combattere con Femen per tornare al mondo dell’arte, dipingendo, studiando e frequentando l’atelier dell’amico e maestro Olivier Blanckart. Nei suoi dipinti riprende le immagini dell’iconografia ortodossa per trasformarle in donne combattenti, donne emancipate, donne senza paura, guerriere contemporanee, come la triade di angeli con corone di fiori che fumano sigarette di fronte a bottiglie vuote. Ma anche la celebre e controversa madonna col burqa. Un lavoro che ha portato avanti l’ideologia dalle connotazioni femministe e provocatorie che l’hanno vista anche detenuta per 3 settimane in una prigione russa. Sempre nell’intervista a Crash racconta: “Come FEMEN combattiamo contro il patriarcato, l’industria del sesso, le crudeli regole della moda che trattano i modelli come oggetti, contro le dittature e tutte le religioni. In ogni singola religione, la donna ha preso il secondo posto, tutte le decisioni sono state prese dagli uomini. Nelle mie icone, sostituisco gli uomini, metto le donne al centro e combatto contro questa ideologia. Il mio lavoro è ancora molto femminista”.
Verrà il giorno, forse non troppo lontano, in cui dovremo chiederci con la stessa furia iconoclasta che cos’è il femminismo. E quel giorno dovremo appellarci alla coerenza e al coraggio delle donne che hanno combattuto come Oksana, per non permettere che la nostra incapacità di rispondere ci renda tutti atei.