Come diventare la dea del graphic design. Conversazione con Paula Scher

Paula Scher alla scrivania dello studio Pentagram a NYC - photo Ilaria Defilippo

Paula Scher alla scrivania dello studio Pentagram a NYC – photo Ilaria Defilippo

“Paula Scher è la dea del graphic design, i suoi lavori sono ovunque”. Recita così Ellen Lupton nella serie di documentari realizzati da Netflix sul mondo dei creativi di cui Paula Scher, graphic designer americana, è protagonista. “Sono nata nel 1948 nei sobborghi di Washington DC. Mio padre lavorava per il governo, era un ingegnere cartografo. Negli anni ’50 scoprì la formula per correggere automaticamente la curvatura della terra in una fotografia aerea. Senza la sua scoperta Google Maps non esisterebbe!” racconta orgogliosa. “Sono cresciuta in una casa piena di mappe e questo sicuramente ha contribuito moltissimo alla mia attitudine al disegno. Iniziai a seguire lezioni d’arte nel weekend alla Corcoran Gallery of Art; mentre i miei coetanei frequentavano le partite di football io prendevo tre diversi autobus per arrivare a scuola. Fu proprio durante quelle lezioni che decisi di volere diventare un’artista – spiega la designer – supportata dal mio insegnante, Mr Tucker, che premiava molto spesso i miei lavori incorniciandoli alla parete come “opera della settimana”.

Giunto il momento di scegliere il college, Paula non ha dubbi, doveva essere una scuola d’arte: “Scelsi di andare alla Tyler School of Art anche se mio padre era convinto che una carriera nel mondo dell’arte non avesse senso. C’era un retaggio culturale per cui le donne ben istruite diventavano insegnanti. Mia madre stessa era insegnante. Ricordo due mie docenti: la prima, Dorothy Steffans, era stata segretaria dell’ambasciatore americano alle Nazioni Unite e a parte l’essere segretaria l’unico lavoro che riuscì a trovare fu quello di docente. L’altra invece era Eleanor Henderson, moglie dell’editor in chief del National Geografic. Donne davvero intelligenti che potevano aspirare nella migliore delle ipotesi alla carriera scolastica. Insegnanti sì, ma non dottoresse, avvocatesse, art director…” spiega Ms Scher. “Riuscii a studiare alla Tyler e a frequentare moltissimi corsi: scultura, basic design, stampa. Il mio intento era quello di diventare un’artista fino a che non iniziai il corso di graphic design, che fu per me una rivelazione. Il graphic design aveva uno scopo, potevo imparare a risolvere problemi. In quegli anni conobbi Stanislaw Zagórski, un professore che mi diede il consiglio più importante della mia vita, quello che mi influenzò davvero moltissimo: ‘illustra con le parole’. Un suggerimento che Paula prese alla lettera e che divenne il suo marchio di fabbrica.

Terminato il college arriva il momento delle grandi decisioni: “Spronata dal mio insegnante mi trasferii a New York. Era il 1970, sotto il braccio avevo il mio portfolio e in tasca 50 dollari. Ora non sarebbe possibile pensare a una cosa simile!” scherza Paula. Grazie al professor Zagórski la giovane designer entra in contatto con alcuni importanti art director newyorkchesi come Milton Glaser e Seymour Chwast; quest’ultimo, più tardi, diventerà suo marito. “Il mio primo impiego fu presso la casa editrice Random, dove per un anno e mezzo disegnai libri per bambini. Poi nel 1972 iniziai a lavorare nel campo della musica, venni assunta dalla CBS Records per disegnare pubblicità. Il lavoro mi piaceva e riuscivo bene. Successivamente mi proposero di lavorare all’Atlantic Records, e proprio lì iniziai a disegnare le copertine dei dischi. Avevo 24 anni e in un solo anno riuscii a vincere alcuni premi e così la CBS mi riassunse. Disegnai copertine per 8 anni, più di 150 copertine ogni anno. Alcune cover sono state disegnate di mio pugno, per altre ho fatto l’art director” racconta Paula.

La cover dell'album dei Boston disegnata da Paula Scher

La cover dell’album dei Boston disegnata da Paula Scher

La graphic designer inizia a farsi notare, disegnando, per esempio, la copertina del primo album dei Boston, che vendette 6 milioni di copie nel primo mese. “In alcuni casi le band avevano molto potere e prendevano decisioni su come sarebbero dovute essere le copertine, oppure in altri casi, – come gli album jazz o quelli di musica classica su cui c’era meno interesse – ho avuto la possibilità di sperimentare e di esprimermi, soprattutto con la tipografia. Ho disegnato cover per Bruce Springsteen, Billy Joel, Rolling StonesHo passato bellissimi momenti. Ero una giovane ragazza con un lavoro importante. Ero veloce, divertente, riuscivo a manipolare le situazioni a mio favore. Poi però entrarono in commercio i cd, l’industria dei vinili entrò in crisi e nel 1982 abbandonai definitivamente la CBS”.

Paula decide di lavorare come freelance, proseguendo a disegnare copertine e opuscoli per diverse case discografiche. Ma non solo: “In quel momento il magazine design stava acquisendo importanza, così decisi di provare. Time Inc. mi assunse per disegnare il prototipo di una nuova rivista chiamata Quality, che doveva essere un competitor di Vanity Fair. Nonostante non fossi specializzata nel settore il mio magazine piacque e mi chiesero di disegnare un’altra pubblicazione. Decisi di chiamare un vecchio compagno del college, Terry Koppel, che venne a lavorare con me e insieme disegnammo il magazine e aprimmo la nostra società, la Koppel+Scher. Lavorammo insieme per 7 anni, la gente iniziò a scrivere di noi”. Poi la recessione dovuta alla Guerra del Golfo e Paula resta sola a gestire la società.

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Proprio in quel periodo, accade un altro evento decisivo per la sua carriera: “Woody Pirtle, che era partner nello studio grafico Pentagram, venne a chiedermi se fossi interessata ad entrare in società. Era il 1990 e nel 1991 facevo il mio ingresso in Pentagram” racconta Paula Scher.Ero l’unica donna fra i partner. Ad ogni riunione al mio ingresso nella stanza la domanda era – ed è – sempre la stessa: ‘cosa ci fa qui una donna?’ Se non ti conoscono, o se la tua reputazione non ti precede questo è il quadro migliore che puoi avere davanti”, precisa Paula. Negli anni progetta loghi e identità che diventano famosi in tutto il mondo, come quelli per CITI, Tiffany o Windows 8, il MoMA e il Public Theater di New York.

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Durante la settimana una vita frenetica, sotto pressione, fatta di decisioni da prendere al volo, su e giù dal quarto piano dello studio sulla 5th Avenue dove ha sede Pentagram. Nel weekend, invece, il bisogno di rallentare i tempi e di dedicarsi a un progetto tutto suo, che la riconduce in qualche modo all’infanzia:Ho iniziato a disegnare le mie mappe per caso. Disegnai a mano la prima mappa – quella degli Stati Uniti, a memoria, come la ricordavo – per la copertina dell’annuario dell’AIGA, un lavoro pro bono. Non ero una illustratrice ma il risultato mi piacque molto, così decisi di proseguire. Io e Seymour avevamo una casa in campagna; lì lui usava dipingere senza sosta, io disegnavo acquerelli. Decisi di voler lavorare su qualcosa di più concreto e pensai: ‘Cose succederebbe se dipingessi queste mappe a grande scala?’”. Paula inizia così il suo progetto personale dedicato alle mappe al quale dedica interamente i suoi weekend riuscendo “a dipingere anche 15 ore al giorno usando solo un piccolissimo pennello”. Svela: “lavoravo lentamente come un artista, soppesando ogni mia scelta. Non ho mai avuto aspettative, era qualcosa che facevo per impiegare il mio tempo”. Poi però tramite un amico gallerista le sue opere vengono messe in mostra e arrivano le prime vendite e le prime commissioni. L’ispirazione per le mappe arriva da tuo padre? “Penso che la qualità e il dettaglio con cui dipingo sia parte del suo lavoro. I miei dipinti descrivono il mondo, puoi farti un’idea che però non è accurata. Proprio come la fotografia aerea, è molto dettagliata ma non accurata”.

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Che consiglio daresti a un giovane designer? “Dev’essere l’amore nel fare le cose a guidarti perché troverai la tua posizione solo così, è frustrante altrimenti. Devi voler fare una cosa, volerla fare bene e trovare il modo per perfezionarti. Deve esserci passione. Se c’è quella passione tutto andrà bene”. Paula Scher ha un superpotere? “Il rossetto?”, dice ridendo. “È una pausa. È come fumare una sigaretta o leggere la posta, un momento in cui fermarmi per un attimo. Andare alla toilette, mettere il rossetto e sentirmi pronta a risolvere ogni cosa”.