I mondiali di Russia 2018: non solo calcio

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Forse è il più grande spettacolo del mondo: sto parlando ovviamente della 21a edizione del campionato mondiale di calcio (o Coppa del Mondo FIFA) che, iniziata il 14 giugno, sta entrando in questi giorni nella sua fase calda: terminati infatti i gironi, con la conseguente uscita della metà delle squadre presentatesi ai blocchi di partenza (32 in 8 gironi da 4 squadre l’uno, con qualificazione delle prime 2), il torneo si appresta ad affrontare ora le spettacolari partite a eliminazione diretta, che, a partire dagli ottavi di finale, porteranno alla finalissima di Mosca, del 15 luglio.

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Il manifesto ufficiale dei Mondiali 2018

È difficile trovare un altro avvenimento, e non solo in campo sportivo, dotato della medesima, fortissima dimensione mediatica, capace come il mondiale di calamitare l’attenzione di milioni di persone in tutto il mondo, superando barriere culturali ed etniche, differenze di mentalità e di consuetudini, perfino fusi orari quando capita che centinaia di migliaia di persone si sveglino nel cuore della notte per seguire la propria nazionale, impegnata sul campo dall’altra parte del globo. Il gioco del calcio inoltre è uno dei pochi spettacoli transgenerazionali, che accende della medesima passione gli adolescenti e i nonni, interessando bipedi umani da 10 ai 100 anni e accomunando uomini e donne, visto che ormai da tempo anche l’universo femminile sta riservando alla geniale invenzione inglese del football considerazione e amore sempre crescenti, come chiunque segua Alley sa bene.

Va sottolineato che al clamoroso salto di scala verificatosi negli ultimi anni, in termini di audience e popolarità, ha dato una spinta decisiva l’effetto moltiplicatore dei media di massa 2.0, comportando importanti ricadute sull’impatto sociale del gioco del calcio, il quale, proiettato al centro della scena mediale, particolarmente durante le grandi manifestazioni, si carica di nuovi significati e connotazioni, intrecciando legami di varia natura con l’immaginario e il sentire collettivi, i role model socialmente riconosciuti, il sistema culturale nel suo insieme, nonché con il piano più direttamente politico.

Dal punto di vista culturale, quello che fino a non molti anni fa era considerato un divertimento per masse poco attrezzate intellettualmente, da cui le persone colte erano invitate a tenersi a debita distanza, è diventato una cartina di tornasole per leggere desideri, delusioni, aspettative e sogni di singoli individui e generazioni, come accade – per non fare che qualche esempio – nel fortunatissimo romanzo Febbre a 90° (Fever Pitch, 1992) dell’inglese Nick Hornby (acceso tifoso dei gunners dell’Arsenal), da cui è stato tratto l’omonimo film nel 1997, nella raccolta di racconti dello scrittore argentino Osvaldo Soriano Fútbol. Storie di calcio (1998) o in Looking for Eric, film di Ken Loach (2009) nato da un’idea originale dell’ex calciatore francese Eric Cantona, che interpreta il ruolo di sé stesso, campione e idolo che irrompe come un’apparizione soprannaturale nella grigia e anonima vita del protagonista, consigliandolo e aiutandolo, deus ex machina in calzoncini e scarpini chiodati sceso da un Olimpo in soffice erba ben rasata.

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Il campione francese Eric Cantona con la maglia del Manchester United

Sempre più diffusa poi è la tendenza a riflettere sul significato relazionale, all’incrocio tra dinamiche dei gruppi, psicologia e sociologia, dell’ “essere (o fare) squadra”, studiando il team sportivo in quanto insieme organizzato di individui che lavorano per il raggiungimento di un fine, con una particolare enfasi sul ruolo dell’allenatore, che non casualmente gli inglesi chiamano manager, colui che ha il delicato, misterioso compito di amalgamare i singoli, anche dottissimi ma anarchici talenti, trasformandoli in una comunità, in una squadra appunto. Che si tratti di un’azienda o di un’istituzione, di una classe scolastica o di un giornale, di un battaglione di soldati o di un’associazione, sono innumerevoli le cellule sociali che possono scoprire in questo modello analogie, insegnamenti e spunti di riflessione.

Per quanto riguarda la dimensione politica, come non parlare della recente partita Svizzera – Serbia, giocata il 22 giugno e vinta 2-1 dagli svizzeri in rimonta, che ha mostrato la particolare esultanza dei giocatori elvetici autori dei goal? Sia Granit Xhaka che Xherdan Shaqiri hanno mimato l’aquila a due teste della bandiera albanese, chiara rivendicazione del significato politico che entrambi, provenienti da famiglie di origine kosovara, hanno voluto dare alle loro reti, suscitando numerose polemiche, la protesta della squadra serba e l’intervento sanzionatorio a loro danno della stessa FIFA, che li ha multati.

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Xherdan Shaqiri esulta dopo il gol alla Serbia

Il concetto stesso di squadra nazionale implica inevitabilmente un meccanismo identificativo con la nazione, una forma di rispecchiamento normalmente confinata in una blanda dimensione stereotipata, ma in particolari contingenze sembra inevitabile che facciano irruzione gli echi e i portati di questioni storiche ben più grandi e gravi di quelle contenute in un campo di pallone, come in questa vicenda che affonda le sue radici nella tragica eredità dei violentissimi conflitti etnici derivati dal collasso della ex Jugoslavia. Sugli intrecci perversi tra calcio, identità etnica, storia e politica nei Balcani ha scritto un libro fondamentale e rivelatore il giornalista de “L’Espresso” Gigi Riva (nomen omen): L’ultimo rigore di Faruk. Una storia di calcio e di guerra (Sellerio 2016).

Un altro libro, uscito quest’anno, di due storici dell’università di Bologna – Riccardo Brizzi e Nicola Sbetti, Storia della Coppa del mondo di calcio (1930-2018). Politica, sport, globalizzazione (Le Monnier) – ci offre un affresco a 360° gradi dell’epopea dei Mondiali, facendoci comprendere come “Il torneo non è mai stato un passivo evento sportivo che si è svolto sullo sfondo di un determinato contesto storico. Del contesto storico i Mondiali sono stati ogni quattro anni il prodotto. A loro volta, i Mondiali possono modellare, grazie alla loro popolarità, le vicende politiche e sociali” come ha scritto Alfredo Sessa sul Domenicale.

5_storia-della-coppa-del-mondo-di-calcio-1930-2018-maxw-644Voglio toccare ancora un ultimo aspetto: in questi mondiali viene applicata la ormai famosa e famigerata tecnologia della VAR, acronimo di Video Assistant Referee. Ogni partita, oltre agli arbitri sul campo (la terna) e a bordo campo (il quarto uomo), viene così monitorata da una centrale operativa, sita a Mosca, dove 4 ulteriori arbitri seguono il gioco e intervengono, su sollecitazione dell’arbitro o di loro propria iniziativa, in una serie di situazioni decisive ai fini dell’esito della partita (calci di rigore, espulsioni, fuori gioco, ecc): soluzione tecnologica già applicata nel nostro campionato di serie A, che costituisce invece un’importante novità per quanto riguarda la FIFA.

Se ci pensiamo la VAR non è altro che l’ultima (per ora ovviamente), rigidamente consequenziale evoluzione della continua, ossessiva e implacabile trasformazione in immagine di tutto quanto succede sul e attorno al campo: siamo ormai abituati a vedere calciatori e tecnici che nascondono con la mano il movimento delle labbra mentre parlano per evitare che il loro labiale venga letto dalle telecamere; tutte le situazioni sono osservate e proposte agli spettatori quasi senza censura alcuna, ragion per cui vediamo in diretta volti tumefatti, arti spezzati, conati di vomito, esultanze imbarazzanti, tatuaggi, tagli di capelli che parrebbero frutto delle cure di hair stylist extraterrestri, eccetera eccetera. Stessa sorte capita sempre più spesso ai tifosi allo stadio, repentinamente capaci di tramutare la delusione per il risultato in esplosione di gioia per i pochi secondi nei quali realizzano di essere loro sugli schermi come fossero Cristiano Ronaldo: i 30 minuti di celebrità di cui parlava Andy Warhol si sono ormai enormemente compressi…

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L’arbitro Luca Banti mima il gesto del VAR durante una partita di serie A

È lo specchio perfetto del nostro mondo del selfie, della rappresentazione e auto rappresentazione in ogni momento, luogo e situazione: viviamo fotografando e fotografandoci, compulsivamente e spesso incoscientemente, e guardando foto e riprese, in un circuito dell’immagine che sembra bastare a sé stesso: l’importante è che sia continuamente alimentato. Della durata di queste immagini, in fondo, non frega niente a nessuno… Domani è un’altra foto.