Chi di noi non ha atteso con trepidazione e impazienza il giorno del diciottesimo compleanno? I 18 anni sono indubbiamente un traguardo, anche se poi nella pratica magari poco è cambiato nella nostra quotidianità. Al massimo ci siamo iscritti a scuola guida, abbiamo finalmente conquistato il diritto di tornare più tardi la sera e abbiamo potuto firmare da soli le giustificazioni a scuola. Esistono dei giovani però per i quali il compimento dei 18 anni comporta ineluttabilmente un cambio radicale di vita. E quel giorno viene atteso con paura e preoccupazione. Sono i ragazzi che non hanno alle spalle una famiglia, sono i ragazzi soli, quelli che, diventando maggiorenni, perdono il diritto alla tutela da parte delle istituzioni.
Come si può pensare che in un Paese come il nostro, dove l’età media in cui i giovani lasciano il nido familiare è tra le più alte d’Europa, un ragazzo di 18 anni, solo e magari straniero, abbia la possibilità di costruirsi una vita solo con le proprie forze? 30 anni è l’età media in cui gli italiani, nonostante abbiano alle spalle il solido sostegno di una famiglia, escono da casa dei genitori.
Uno dei punti della campagna “Donare futuro” mira proprio a sanare questa contraddizione, chiedendo alle istituzioni di accompagnare i neomaggiorenni fuori famiglia tramite l’Istituzione di fondi nazionali e regionali per sostenere il processo di avvio all’autonomia dei giovani che frequentano percorsi di formazione professionale o che stanno avviando un progetto di start-up di una nuova attività e/o di vita autonoma, fino al compimento del venticinquesimo anno di età.
Difficile per noi immaginare le storie di questi ragazzi, i fallimenti, i successi, le loro emozioni e le loro paure. Per aiutarci davvero a capire, abbiamo chiesto a Elena di raccontare la sua storia, e la ringraziamo per il suo prezioso e generoso contributo.
Mi chiamo Elena, ho 24 anni e vivo in un paese del Sud Italia. Sono originaria dell’Est Europa, arrivata in Italia quando avevo 15 anni. Sono stata una ragazza costretta a crescere troppo in fretta. C’è chi dice che il racconto sia una delle forme letterarie più difficili e io mi sono sempre chiesta il perché. Forse perché raccontare qualcosa è semplice per certi aspetti, ma raccontare di sé è difficile.
Sono stata in una casa famiglia, dall’età di 15 anni. Quando si sono avvicinati i 18 anni la comunità ha provato a farmi conoscere una famiglia affidataria, ma senza successo. Mi hanno abbandonata subito ed è stata dura, perché avevo sperato in un’uscita più leggera per me. Sapevo che a 18 anni dovevo uscire dalla comunità perché il mio comune di riferimento non avrebbe più pagato la retta. Sono passati 6 anni e rivivo ancora quel giorno con paura.
Tra me e me pensavo: “E adesso?!? Mi devo rimboccare le maniche e trovare una soluzione”. Chiedo un incontro con il giudice e l’assistente sociale che non era mai venuta da me a incontrarmi e non sapevo nemmeno chi fosse. Ho scoperto solo in quell’occasione che era un maschio, figuriamoci! Non sapeva della mia esistenza, mi aveva lasciata sola dal mio arrivo in comunità tre anni prima.
Finalmente ottengo questo incontro che va molto male e dico loro che finché non sarò autonoma e con un lavoro e una casa non me ne andrò dalla casa famiglia. Per fortuna ho trovato completo appoggio da parte della mia comunità, che consideravo davvero casa mia.
Resto lì ancora per un anno e mezzo e nel 2012 inizio a lavorare presso una fabbrica. È molto dura, ma ringrazio Dio di questo lavoro che mi permette di diventare indipendente. Mi manca ancora però l’ultimo anno scolastico. Tra alti e bassi, stanchezza e sacrifici, concludo l’anno e mi diplomo, a mie spese ovviamente. Infatti devo ritirare ancora il diploma perché dovrei pagare 300 euro per averlo.
Nell’agosto del 2014 decido di prendermi una casa e andare via dalla comunità. Grazie ai genitori del mio ragazzo riesco ad avere la casa perché la proprietaria all’inizio non mi voleva perché sono straniera e la comunità in quel periodo mi ha aiutato poco. In casa per me è stato facile perché ero abituata a cavarmela da sola, posso dire di essere cresciuta da sola. Ho avuto difficoltà sugli aspetti burocratici, ma, per fortuna, mi ha aiutato un’amica.
Oggi ho 24 anni, sono uscita da 4 anni dalla comunità e mi sono state chiuse tante porte in faccia. Ma a testa alta vado avanti e penso: “Un giorno ci sarà anche per me la felicità, se no che senso ha avuto tutto questo dolore?”.
Da grande voglio semplicemente essere ciò che per me le persone più importanti non sono state, cioè un punto di riferimento, una spalla su cui piangere.
Spero in un futuro migliore, spero di trovare un lavoro diverso che mi dia più tempo libero per me stessa, per vivere la vita di una normale 24enne, spero di costruire la famiglia che non ho mai avuto. Di avere sempre la forza che ho oggi per affrontare tutto.
Alle istituzioni vorrei dire che è giunta l’ora di indossare un po’ i nostri panni, e provare ciò che proviamo noi, di indossare le nostre scarpe e rifare il nostro sentiero. Vorrei che fossero più presenti nei nostri percorsi e che, in finale, facessero il proprio lavoro.
Ho scelto di impegnarmi in Agevolando [una delle associazioni promotrici della Campagna “Donare Futuro” ndr] perché penso che tutti insieme possiamo cambiare le cose, migliorare il percorso dei ragazzi che sono ancora in comunità.
Vorrei che potessero essere aiutati con più attenzione e più umiltà.
Vorrei essere per loro un esempio e magari aiutarli.
Sono felice di condividere la mia storia con persone che possono capirla e andare oltre l’apparenza.