Cara Alley,
Vivo in un paesino sulla costa catalana con cinquemila abitanti registrati all’anagrafe e massimo una decina registrati di passaggio sulla strada principale, in un pomeriggio d’inverno. È un posto particolare, a cominciare dal fatto che c’è solo un albergo, un grande albergo con una ventina stanze, tutte affacciate sul mare. Un paese di pescatori in cui non ha importanza se arrivi dall’America del Sud o dal paese accanto, sei comunque straniero. Ma se vai in panetteria ed è già passato tuo marito, ti evitano lo stesso di comprare il pane due volte. Perché il paese sa sempre tutto, perfino quanto pane consumate in casa. Il paese in qualche modo si prende sempre cura di te. Ora sì, se litighi con qualcuno nel gruppo di Whatsapp di classe, poi probabilmente te lo ritrovi dietro il bancone a servirti il prosciutto con aria ingrugnita quando vai a fare la spesa. Non si scappa.
Ecco perché chi vive qui da più tempo ha imparato. Ha imparato che le opinioni quando non sono quelle della maggioranza è meglio tenersele per sé. Perfino al Club Nautico, un tempo feudo dei “signori bene” di Barcellona, gli stessi che arrivano ancora il fine settimana con la cameriera in divisa grigia e grembiule inamidato per inseguire la prole scatenata in spiaggia, in quel Club Nautico dove fino a ieri si parlava rigorosamente castigliano, ora abbozzano e parlano catalano. Qualcuno porta perfino le espadrillas con la estelada, la bandiera indipendentista catalana, che si riconosce dalla stella su fondo azzurro. Qualcun altro, più prudente o più vigliacco, negli ultimi giorni ha scambiato la estelada che aveva appeso al balcone con la bandiera costituzionale, sperando che i vicini non se ne accorgano. Perché non si sa mai, la polizia è sempre ben informata.
Nei piccoli centri come questo la storia ti respira addosso, si intreccia alle storie quotidiane, proprio come le litigate su Whatsapp, e si fa più tangibile, ma non meno complessa. Ero qui da poco, quando un’amica mi raccontò, in castigliano, di quando da ragazza si era fatta una notte in prigione per essersi rifiutata di parlare in castigliano a un agente della Guardia Civil. Qui la gente abbassa ancora la voce quando dice qualcosa che non corrisponde al sentire della maggioranza. La dittatura è finita l’altro ieri, sulla carta, ma nella realtà fa ancora parte di un vissuto emotivo difficile da scordare. A cominciare dal fatto che devi dare il numero della tua carta di identità, lo stesso per tutta la vita, per qualunque gestione, compreso ritirare o spedire un pacco. O che se non paghi una multa ti prendono i soldi direttamente dal conto corrente, senza passare dal via.
Se vi state chiedendo che cosa c’entri tutto questo con le tensioni politiche di questi giorni, la risposta è che secondo me molte risposte sono nascoste proprio qui. Che finché non si capisce questo vissuto, questo quotidiano, è difficile capire le scelte politiche e quelle collettive.
Fino ai primi segni di repressione da parte del governo spagnolo, quando hanno iniziato ad arrivare migliaia di agenti della Guardia Civil alloggiati sulle navi da crociera con Titti e Silvestro, era praticamente impossibile in paese sentire qualcuno dire che non voleva l’indipendenza. Non che la volessero tutti, forse non erano neanche la maggioranza, ma in pochi erano disposti ad ammettere di non essere indipendentisti. Quando è arrivata la Guardia Civil in tenuta antisommossa alle porte del paese, però, il giorno del referendum, le cose sono cambiate. C’era quasi tutto il paese davanti alla scuola, deciso a votare. Anche chi fino al giorno prima sarebbe rimasto in casa. Anche chi voleva votare No. Anche chi era lì per votare No e dopo aver visto le immagini al telegiornale ha barrato la casella del Sì. E così si è votato, la pizzeria del paese ha portato le pizze, il contadino ha messo di traverso il trattore, da qualche parte c’erano eserciti di hackers al lavoro per ripristinare ogni volta il sistema informatico che il governo spagnolo mandava in tilt, e quando è arrivata la Guardia Civil, nei paesi vicini, si è corsi a nascondere l’urna nel cimitero e i documenti compromettenti nei cuscini della biblioteca.
Tutto questo legittima il referendum? Forse no. Ma è impossibile vivere qui e restare indifferenti, comunque la si pensi sull’indipendenza della Catalunya. «Io non ero indipendentista, ma…» lo sento ripetere di continuo, in paese, adesso. «Io non ero indipendentista» quello che fino a qualche mese fa nessuno si sarebbe azzardato ad ammettere. Perché non importa più se vuoi l’indipendenza della Catalunya oppure no. Ora siamo stati chiamati in causa tutti quanti. Qualcuno continuerà a combattere per diventare una Repubblica indipendente, qualcuno lo farà per resistere alla prepotenza, qualcuno lo farà per difendere il proprio paese dallo Stato che continua nonostante tutto ad avere il volto dell’oppressore, non di una nazione di cui ci si senta parte, oggi meno che mai.
Non c’è bisogno di essere indipendentista e neanche di aver votato gli esponenti della Generalitat che ora sono in prigione, per sentire che stanno attaccando i diritti fondamentali di uno Stato democratico. L’estrema destra sta scendendo in piazza sotto la bandiera spagnola, sempre più sfacciata e impunita. In un altro Stato ci sarebbe già scappato il morto, probabilmente. In un altro Stato probabilmente avrebbero già eretto le barricate. I catalani invece resistono pacificamente. Scendono in tremila a bloccare la stazione del treno ad alta velocità di Girona e dopo averla collassata per un giorno, all’ora stabilita se ne vanno e non lasciano neanche una cartaccia sui binari. Escono sui balconi alle dieci di sera a sbattere pentole e coperchi e qualcuno improvvisa un concerto che diventa virale. Si ritrovano in una mattina di domenica a colorare i cartelli con il volto dei politici in prigione per protestare contro il loro arresto, ma nel paese in cui vive Oriol Junqueras affiggono tutti i volti tranne il suo, perché il figlio piccolo non lo veda. Fra gli slogan gridati in questi giorni, uno dei più popolari dopo “Le strade saranno sempre nostre” e “I pompieri saranno sempre vostri” (scandito dagli stessi vigili del fuoco), è “Senza le nonne non c’è rivoluzione”. E quando c’è da manifestare per chiedere la liberazione dei politici in prigione, arrivano come una valanga a riempire le strade di Barcellona, settecentocinquantamila persone, un fiume allegro e indignato di luci, cartelli e bandiere.
A guardare il mondo dal paesino in cui vivo, ora si è combattuti fra una gran voglia di normalità e la sensazione che una mano enorme stia scuotendo il tuo mondo costringendoti a cercare equilibri impossibili. Vista da qui, quella di questi giorni non è una battaglia per l’indipendenza, non solo. In questi giorni si lotta soprattutto per la normalità. Una normalità in cui i politici eletti non finiscono in carcere, in cui non ti picchiano se cerchi di votare, sia pure a un referendum dichiarato illegale, in cui il governo non oscura pagine web, in cui la Guardia Civil non spacca i vetri delle scuole e in cui il tuo programma umoristico preferito non sospende la puntata perché nessuno quella sera ha voglia di ridere.
La lotta per l’indipendenza si è trasformata in qualcosa di completamente diverso, per ora, e ha finito per abbattere le differenze, invece di acerbarle, per unire le forze, finché dura. Almeno da questa parte della democrazia, almeno per chi non crede nella prepotenza e nell’autoritarismo. Io non ero indipendentista, e non lo sono neanche adesso. Ma sono andata in manifestazione e difenderò comunque il diritto dei catalani a decidere in libertà e nel rispetto delle garanzie democratiche, senza abusi di potere e senza essere umiliati.
Gli eroi di questi giorni non sono i politici. Non sono neanche i pompieri, che pure sono quelli che più ci assomigliano e si meriterebbero di essere definiti tali. Il vero eroe di queste giornate è la disponibilità a mobilitarsi dei catalani e di chiunque si consideri tale, un senso di appartenenza solido e forte, che non ha nulla a che spartire con il nazionalismo, ma con un’identità vissuta con un orgoglio ostinato, legata a doppio filo a un sogno, a uno scopo comune. La consapevolezza improvvisa di far parte di un momento storico, la sensazione di poter fare la differenza, giusta o sbagliata che sia, la certezza che gli stessi diritti che stai difendendo ora saranno quelli a cui ti appellerai tu un giorno, di cui prima o poi avrai bisogno e che vorrai tanto trovare lì dove li avevi lasciati. Sarà tutto questo a scrivere la storia, alla fine, a durare, inciso nelle strade e nelle genealogie dei piccoli centri come il mio.
La storia scritta nel silenzio e nel tempo, quella in cui cominci cercando le gesta di un eroe e finisci per scoprire che l’unico vero eroe della storia sei sempre stato tu.
Roberta Marasco