Cara Alley,
Quella volta che ho pensato prima alle sue tette che al suo cervello.
Quella volta che non le andava di fare l’amore (era una relazione stabile) e io ho insistito incurante.
Quella volta che mi sono prestato a discorsi da caserma sul corpo delle donne senza protestare.
Sono queste le tre cose, confessabili, che mi sono venute in mente nell’accogliere la sfida lanciata, o meglio, che io ho percepito essermi stata lanciata, in quanto uomo, dagli ormai famosi hashtag #quellavoltache e #metoo.
Una volta partoritele, con non poca fatica ad essere sincero, come è mia abitudine, non mi sono fermato e le ho utilizzate per tentare una impudente riflessione da “massimi sistemi”. Ho cominciato a generalizzare i miei ricordi, ad accumulare variazioni sul tema, ad associare e dissociare concetti, luoghi ed episodi storici e il tutto si è progressivamente personificato in uno degli eroi moderni per eccellenza: Nelson Mandela.
Perché? Cosa c’entrava il presidente nero più famoso del mondo con Asia Argento, Harvey Weinstein, Selvaggia Lucarelli e tutta la bufera trend topic scatenatosi sui social. Perché non stavo pensando a Simone de Beauvoir, Angela Davis o Pier Paolo Pasolini o a una qualsiasi delle eroine di mia figlia Margherita e del suo libro adorato Storie della buona notte per bambine ribelli?
A poco a poco l’ho capito. Dopo essersi ribellato da giovanissimo a un matrimonio combinato, dopo aver scontato diciotto anni di carcere su Robben Island, e dopo essere stato personaggio simbolo dell’uguaglianza e dell’anti-razzismo, Nelson Mandela è stato l’artefice del più grande processo di riconciliazione tra vittime e carnefici della storia moderna.
A partire dal 1994, anno delle prime elezioni libere dall’apartheid, il Sudafrica, per suo volere, si è rifondato come “rainbow nation” sulle Commissioni per la “verità e la riconciliazione” in cui le vittime testimoniavano la loro sofferenza e i carnefici se ne facevano pubblicamente carico.
L’apartheid emergeva così come una vera e propria gabbia di pensiero, che intrappolava l’essere bianco, nero o coloured, che faceva assumere comportamenti e abitudini a prescindere dalla reale volontà del singolo, sia che si subisse, sia che si agisse il sopruso e la violenza.
Una gabbia di pensiero che personalmente trovo molto simile a quella che caratterizza storicamente il patriarcato, il machismo e le altre “guerre” condotte dal genere maschile verso gli altri generi, femminile in primis. Sono guerre che discendono dai testi sacri, dall’Illuminismo, dalla rivoluzione industriale e, ahimè, anche dalla Resistenza e dal movimento operaio del Novecento.
Sono guerre che necessitano di una riconciliazione, della presa di coscienza del dolore delle vittime, da quello più evidente di uno stupro a quello meno evidente di una battuta arrogante, e dell’ammissione della colpa da parte dei carnefici, soprattutto di coloro che non si ritengono tali perché leggono la realtà a senso unico, perché non ci pensano, perché non riflettono su quanto la cultura delle guerre di genere li abbia plasmati e dato loro un ruolo, purtroppo dominante, nella società globale.
Ben vengano dunque le mobilitazioni sui social come quella di questi giorni. Ciò che possono insegnarci, e ciò che in realtà ci insegnano da sempre il pensiero femminista, ecologista e non violento, è che tale riconciliazione non dovrebbe avvenire solo nel chiuso di un edificio istituzionale, di un’aula di tribunale o di una commissione parlamentare ma dovrebbe costituire il paradigma su cui rifondare le relazioni tra uomini e donne, in tutti i luoghi fisici o virtuali in cui esse si svolgono: dal tinello di casa all’ufficio, dal pub alla pubblica piazza, dal banco di scuola al camerino di un set cinematografico.
Nei suoi scritti Simone de Beauvoir sosteneva che “essere donna non è un dato naturale, ma il risultato di una storia. Non c’è un destino biologico e psicologico che definisce la donna in quanto tale”. Tale destino era, ed è ancora oggi, la conseguenza della storia di una civiltà, e questa storia va secondo me riscritta, una volta per tutte.
Giosué De Salvo