La sottile differenza tra essere libere e sentirsi libere

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Assomiglia al #metoo sulle molestie sessuali, la lista di “è successo anche a me” che ha seguito il mio post sulle dimissioni volontarie. Può sembrare un accostamento azzardato, eppure gli elementi comuni sono molti. Sono coinvolte le donne: una minoranza in termini rappresentativi, in questo come in quasi tutti gli altri Paesi del mondo. E’ coinvolta la “libertà di scelta” che pare avessero queste donne. Quelle che “ci sono state”: potevano anche dire di no, potevano vestirsi diversamente, potevano difendersi meglio. Quelle che “si sono dimesse, ma avevano altre scelte possibili”: non avere figli, oppure continuare a correre all’impossibile, accettando che il loro lavoro valesse meno di quello di altri.

Ed è coinvolta la cultura del nostro Paese. Perché abbiamo leggi che ci rendono libere nella forma: possiamo scegliere, possiamo denunciare, possiamo dire di no. Ma poi c’è la cultura, che non è scritta a chiare lettere da nessuna parte e permea tutte le nostre narrazioni comuni: la pubblicità, gli articoli di giornale, i giocattoli, il confine tra ciò che è accettabile ciò che non lo è, la pacca sulla spalla alla battuta sessista, il titolo di giornale che serve “a far vendere”, il capo che è disonesto ma intanto “porta il risultato”, le barriere reali e fisiche a un’inclusione proclamata in teoria, il non voler apparire bigotti, il confine tra buon senso e buon gusto che si allarga, il bisogno di essere dentro e non fuori al gruppo dei più forti, la voglia di farcela anche a costo di…

E’ la cultura di un Paese a elevare il punto di partenza: ad alzare lo scalino sopra a cui tutti noi, poi, misuriamo la nostra reale libertà.

Se la cultura del Paese non ci eleva, tutte noi, tutti noi, partiamo da molto più in basso. Siamo liberi in teoria: di scegliere come vestirci, di scegliere a chi dire di sì, di scegliere di restare. Ma in pratica siamo chiusi dentro a delle regole “non dette” che non ci lasciano scelta, a meno di pagarla con l’isolamento, a meno di affermarla con un salto individuale che richiede un’assertività disumana, perché contraddice le regole del branco.

Mi dispiace vedere una ragazza giovane che va in ufficio in minigonna e tacco a spillo? No, se vedo e sento che lei sa di essere anche molto altro: se lo fa perché si sente libera e non ha voglia, invece, di mettersi la cravatta. Mi dispiaccio, invece, se mi accorgo che lo fa perché la nostra cultura l’ha convinta che quella sia l’unica strada: che non ci sarà spazio per ciò che pensa, fa e dice. Per ciò che, interamente, è.