È ancora tempo di vacanze – grazie al cielo! Per questo voglio prendermi una vacanza anche dai temi consueti, per rendervi partecipi di alcune riflessioni nate in questo mese di agosto, durante il quale molti di noi possono godere di un lusso sontuoso e raro: la disponibilità di un tempo nostro, liberato dai doveri, quello che i latini chiamavano otium, distinguendolo dal negotium, gli impegni quotidiani imposti dalle necessità del vivere.
Ad esempio queste righe le sto scrivendo – una volta tanto a penna e non al computer – seduto su un muretto ombreggiato, ai piedi di uno slanciato campanile romanico di fronte al lago di Como, assecondando l’impulso del momento, anche se mi accorgo man mano che sono la condensazione e il chiarimento di sensazioni e pensieri affacciatisi alla mente a più riprese nei giorni precedenti, che ora, in un momento di soave far niente, richiamano prepotenti la mia attenzione.
La vacanza è un momento di sospensione e di assenza: la parola deriva dal latino vacans, che significa l’essere vuoto, sgombro; e infatti, anche se preferiamo non dirlo e fingere che essere in vacanza sia solo e sempre splendido e divertente e rilassante ed eccitante, la vacanza può angosciare e indurci per difesa a volerla programmare meticolosamente, irreggimentando i giorni in una sequenza fitta di cose da fare, senza spiraglio alcuno per l’imprevisto, il dubbio, il vuoto. Così calendarizzata, stipata di obblighi e impegni magari nemmeno scelti da noi, ma delegati ad altri (guide, tour operator, eccetera), viene domata, diventa più simile al tran tran quotidiano, fino a che, finalmente (anche se non lo riconosciamo), finisce e possiamo tornare a casa. Fino alla prossima, di cui avremo ancora disperato bisogno…
Mi e vi chiedo: siamo capaci di vivere le nostre ferie senza un obiettivo, semplicemente decidendo giorno per giorno non tanto cosa fare, ma se davvero desideriamo fare e non sostare, oziare? Ecco il punto: stare non ci basta? Intendo stare fermi a osservare, ascoltare, assaporare, godere, sentire; abbiamo davvero bisogno di altro?
Io vi parlo di solito di fotografi e artisti, il che ha a che fare profondamente con queste considerazioni: se la frequentazione dell’arte, quella visiva in particolare, può darci qualcosa di duraturo e magnificamente (in)utile, credo stia proprio nel mostrarci un modo inedito di guardare e di sentire, uno stile altro con cui interagire con cose e persone. Gli artisti ci aprono gli occhi a uno sguardo sorprendente, capace di stupore, perché il punto non è cosa guardiamo, ma come. E, soprattutto, insegnano – cioè scoprono per sé e dunque rendono disponibile per chi voglia e sappia seguirne la traccia – che guardare non è questione solo di occhi: con lo sguardo usciamo dal vicoletto del nostro io per affacciarci sull’affollata piazza del mondo, senza sapere cosa vi troveremo. Guardare non è vedere, nasce da una decisione ed è una forma di azione: costruiamo (anche se non ne siamo consapevoli) il nostro sguardo come un artigiano un mobile.
Certo, è probabilmente più facile in vacanza lasciarsi avvincere da panorami affascinanti o da creazioni superbe come lo straordinario edificio di Castel del Monte, residenza pugliese di Federico II, perfetto come un diamante a otto lati, oppure la cattedrale romanica di Trani, costruita in riva al mare, abbagliante sotto il sole del tavoliere nella sua pietra bianca che si imbeve di luce. Anche se ci potremmo chiedere – ma è solo un accenno: il discorso meriterebbe di essere approfondito -, fino a che punto le grandi mete turistiche e, soprattutto, i monumenti d’arte e architettura di cui noi italiani giustamente ci gloriamo ci lasciano davvero qualcosa; e non intendo riferirmi a mezzo gigabyte di foto sullo smartphone, una gallery su Facebook e una ventina di selfie…
Ma gli artisti contemporanei hanno imparato a guardare gli angoli più impensati, a utilizzare i materiali più strani, scavando magari fra i detriti e dando nuova vita a quel che è stato consumato, scartato o solo dimenticato; a questo modo nuovo di vedere corrispondono così nuovi oggetti, situazioni e luoghi che fino a poco fa era come non esistessero, perché, per quanto ci circondassero, erano fuori dal campo della nostra attenzione, trascurabili, dunque invisibili.
Dei tappi di bottiglia possono diventare una mappa e un arazzo per il ghanese El Anatsui, una vecchia Panda la propria casa per il siriano Manaf Halbouni – per citare opere della recente mostra in Triennale La terra inquieta -, un confuso colpo d’occhio in un autogrill una foto perturbante, come per Robert Frank nel suo lavoro sugli Americani, che ha segnato una vera rivoluzione nello stile del reportage, svelando un’America mai prima raccontata.
A partire da questi modelli possiamo forse osservare quel che ci circonda in modo impensato, diverso, e riscoprire lo sguardo del bambino di cui così tanti artisti parlano, come Picasso che diceva: “A quattro anni dipingevo come Raffaello, poi ho impiegato una vita per imparare a dipingere come un bambino.”
E non è forse quel che fanno i bambini, quando giocano a costruire castelli con la sabbia, l’idea che ha portato Giuliano Mauri a dare vita a una cattedrale tra le montagne, fatta solo di alberi disposti su un pavimento di erba e sotto la volta del cielo, a Zambla, nel Parco delle Orobie Bergamasche?
L’artista ha visto la cattedrale, e da questo sguardo interiore, che è pensiero e azione in potenza, con dei faggi e un’umile lavorazione che proviene dal saper fare tradizionale degli abitanti di queste valli, ha realizzato qualcosa di sorprendente, un’opera che è allo stesso tempo idea e luogo, natura e cultura, non separate, ma avvinte e indistricabili, senza che si possa capire (senza che serva capire) dove finisca l’una e inizi l’altra.
Ho voluto farvi conoscere alcune mie riflessioni, a partire da luoghi che ho visitato in queste settimane, perché spero possano aiutarci a ricordare che andare in ferie ed essere in vacanza sono due cose ben diverse e la seconda, probabilmente, possiamo renderla nostra quasi ogni giorno.
E quindi, buona vacanza: sta per cominciare!