“Sai Fra, a volte anche io vorrei essere più gay”. E’ la frase che Matteo, un giovane tecnico, “eterosessualissimo” nei gusti, modi e linguaggio, mi ha buttato lì, al rientro di una breve pausa passata scherzando, di una comune e faticosa giornata lavorativa.
Segue mia faccia basita, a cui segue sua precisazione: “No no aspetta, mi piace sempre la…, però vorrei essere più leggero, capace di scherzare di più, come fate voi, perché io quando lavoro con voi sto benissimo”.
Preciso. Io ho la fortuna di fare un lavoro creativo, uno di quelli in qui “ciò che sei”, il tuo modo di essere, caratterizza e qualifica anche molto “ciò che fai” e come lo fai. Ed ho la fortuna di farlo spesso (soprattutto ultimamente) insieme ad un amico (vero), con il quale la sintonia professionale e quella umana sono pressoché indistinguibili.
Io e il mio amico siamo gay, e lo siamo in modo tranquillo e trasparente con tutti quelli che lavorano con noi. Come due eterosessuali qualunque mi verrebbe da dire. In modo “risolto” quindi, ma anche ironico, divertito e divertente. Soprattutto quando le condizioni lo permettono. Ciò significa che durante la nostra giornata spesso si scherza, in primis su di noi, sui nostri difetti e manie, e anche inevitabilmente su ciò che ci circonda e accade. Senza mai mancare di rispetto a nessuno (ci mancherebbe), senza mai compromettere la nostra professionalità e il risultato finale (ci ri-mancherebbe), ma contemporaneamente anche dissacrando e alleggerendo un po’ la tensione a volte spropositata che si crea facilmente nel nostro ambiente, a mio parere più appropriata per il tavolo operatorio di un pronto soccorso.
All’interno di questo contesto nasce la frase di Matteo. E a parte il narcisistico piacere del vedersi umanamente apprezzati da qualcuno non solo per ciò che sei, ma anche per come rendi migliore il suo tempo, quella frase “a volte anche io vorrei essere più gay”, gettata lì da un ragazzo eterosessuale che sulla carta dovrebbe essere lontano da me anni luce, ha incominciato con le ore a lavorarmi dentro. A girare su se stessa, tirandosi dietro pensieri su pensieri, fino a diventare un piccolo gomitolo di considerazioni ed emozioni.
La prima cosa a cui ho pensato è stata come il sentirsi liberi e in pace con se stessi, sia sempre contagioso. Induca chi ti sta intorno a farlo a sua volta. A non avere, lui per primo barriere nei tuoi confronti, ma anzi, voglia di provare, adattandola alla sua vita, quella stessa libertà e serenità.
La seconda cosa a cui ho pensato, è stata quella parola usata da Matteo per spiegarsi meglio, “leggero”, seguita dalle altre “capace di scherzare”. Ho pensato davvero a quanto a me sia costata quella “leggerezza” il cui peso specifico è in realtà pari al piombo. A quanto sia costato spezzare le punte dell’offesa, della canzonatura. Spuntarle per trasformare quelle armi in giocattoli non più in grado di ferire, spaventare o intimidire nessuno, ma anzi, ribaltate nelle tue mani per uso e significato, di rafforzarti affermarti. In grado di renderti forte e vivo.
La terza cosa alla quale ho pensato è stata la rabbia. Che ho provato io negli anni, tanta, e che provo ancora di fronte alle violenze e alle discriminazioni. Quella che abbiamo provato e proviamo tutti. Quella che devono avere provato i ragazzi dei moti di Stonewall, in quel lontano 27 giugno del 1969 a New York, quando vessati per l’ennesima volta dai “controlli” della polizia hanno trovato il coraggio di ribellarsi e di liberarsi della paura di subire, dando vita al primo Gay Pride della storia. Ho pensato a come tutto questo, tutta questa “rabbia” e paura, avrebbero potuto mangiarci dentro fino all’ultimo. Definirci e qualificarci in ogni azione. E a come invece, contro ogni aspettativa e in linea con il senso etimologico di quel termine, “gay” (gaio), che noi stessi abbiamo scelto per definirci, siamo riusciti a trasformare la rabbia in rivendicazione positiva dell’orgoglio di non avere più paura. A come abbiamo scelto come simbolo della lotta per l’uguaglianza un arcobaleno, che è l’opposto del nero e del buio. Ponte colorato della riconciliazione. A come ogni anno lo usiamo per colorare le centinaia di cortei e manifestazioni politiche, gioiose e provocatorie, i Pride, in tutto il mondo, per dire che esistiamo e chiedere gli stessi diritti alla felicità.
Ho pensato a come tutto questo caotico cammino di anni e di vite, fosse contenuto, compattato, in quella frase che Matteo ha buttato lì, inconsapevolmente, alla fine di una pausa di lavoro. A come sia sempre la voglia di felicità e la certezza di meritarsela, a rendere migliore la vita e le persone. Ad avvicinarci e a farci sentire simili nelle differenze.
Alla fine, ho pensato che se anche gli eterosessualissimi omofobi riuscissero così, dopo una pausa caffè, ad ammettere serenamente di “voler essere più gay”, chissà, forse la loro ossessione e violenza, semplicemente, svanirebbero. E il tempo di tutti, sarebbe migliore. Oltre che più felice.