Tutti quei cuori fuggiti lontano: ragazzi partiti per avere diritti

img_2681Ricordo anni fa uno spettacolo di Moni Ovadia. Raccontava che la differenza tra la mamma ebrea e quella napoletana è che la mamma ebrea dice al figlio “se te ne vai, mi uccido”, mentre quella napoletana “se te ne vai, t’accir!”. Ecco, se questa differenza è vera, mia mamma, napoletana per nascita, con un cuore grande quanto il Vesuvio, è stata sempre un incrocio tra Posillipo e Israele.

A vent’anni o giù di lì, primi viaggi in giro per l’Europa e primo viaggio a Berlino, senza cellulare da una cabina a scheda le raccontavo tutti i giorni quello che vedevo: la libertà dei ragazzi che si tenevano per mano per strada, le bandiere arcobaleno fuori dai locali, locali che avevano le vetrine e non pareti di muro come da noi. “Qui il sindaco della città è gay dichiarato mamma!”. Lei ascoltava, ascoltava, sentiva il mio entusiasmo, non mi fermava, e alla fine di ogni telefonata chiudeva sempre allo stesso modo: “siete più liberi lì, avete più diritti, lo so. Qui sono arretrati, abbiamo il Papa. Se vuoi andare a vivere lì vai. Anche se la mamma muore di dolore, l’importante è che sei felice”.

Come è facile immaginare, a Berlino non mi sono mai trasferito. E non tanto per la “velata” previsione di infarto miocardico direttamente all’aeroporto di Malpensa. Non partii probabilmente perchè non accettavo che il prezzo da pagare per essere rispettato, per avere una vita con i diritti che mi spettavano, fosse lasciare la mia famiglia, mia nipote nata da poco, la mia università. I miei amici e compagni che rimanevano qui a lottare per cambiare le cose. Fosse lasciare il Paese che amavo con tutto me stesso, anche se quell’amore, ai tempi, era ricambiato da una fredda, spesso ostile e sprezzante indifferenza.

Eppure quelli erano anni in cui si partiva davvero. E non parlo dei progetti Erasmus. In Europa fiorivano i diritti, e i miei amici partivano non in cerca di lavoro, ma di riconoscimento, libertà, rispetto. Partivano in cerca di uguaglianza, amore e di futuro.

Stefano, compagno di università, lingue e letterature straniere, per Londra; Lucia, con cui ballavo sempre Ray of Light il giovedì sera al Gasoline, Parigi; Michi, cameriere di uno dei primi locali friendly di Porta Venezia, Berlino. Per non parlare di quando arrivò la Spagna del premier socialista José Luis Zapatero, con l’approvazione del matrimonio egualitario (nel 2005). Lì non li contavo nemmeno quelli che se ne andavano. Capitava semplicemente che ad un certo punto non vedevi più qualcuno in giro: “Ma tizio che fine ha fatto?”, “Se ne è andato in Spagna, un mese fa, e ha fatto proprio bene!”.

Io rimanevo tutte le volte con la mia domanda accesa come una lampadina dentro me stesso. Facevo bene a rimanere? Perchè non me ne andavo anche io? E mentre cercavo le risposte che forse già conoscevo molto bene, continuavo la mia università, facevo il mio servizio civile all’Arcigay, andavo nelle scuole in autogestione a parlare di omosessualità, marciavo ai primi Pride partecipati italiani. Mi incazzavo quando la politica definiva “eticamente sensibili” i miei diritti, vedevo crescere mia nipote, mi innamoravo, mi fidanzavo, mi sfidanzavo, e cercavo in tutti i modi di avere qui, a casa mia, una vita che fosse il più possibile libera. Il più possibile uguale.

Si parla spesso di fuga di cervelli per rappresentare il disagio di ragazzi che qui non trovano il futuro e il riconoscimento che meritano. Per quella che è la mia esperienza, ho visto anche tantissimi cuori fuggire all’estero. Cuori giovani, ma già così stanchi e affamati di futuro da essere pronti ad andarlo a rincorrere ovunque. Dall’Italia all’estero, ma anche più semplicemente dalla provincia bigotta e omofoba, verso la metropoli più aperta e anche indifferente. La migrazione dei ragazzi, delle persone lgbt in cerca di libertà e diritti è un fenomeno di cui nessuno si è mai reso veramente conto. La politica colpevolmente prima di tutti. E forse non si riuscirà mai a fare una stima, con una cifra da pubblicare in un titolo di giornale.

Abbiamo lasciato fuggire via tanto amore e tanta felicità in tutti questi anni e non ce ne siamo accorti, soprattutto non ci siamo mai accorti di quanto tutto questo ci abbia impoverito e reso forse più soli. Per quel che mi riguarda, la domanda sul se avrei o non avrei dovuto partire (immolazione di mamma permettendo), ha avuto recentemente una piccola risposta, o comunque mi piace pensarla così.

Angelo, ragazzotto decisamente in carne e riccioluto, venuto a studiare architettura a Milano dalla provincia calabra. Ci si era conosciuti in una delle estati milanesi passate a bere cocktails fuori dai primi locali finalmente con le vetrine. Poi il viaggio (suo) a Siviglia, l’amore estivo che diventa invernale. Gli avanti e indietro per un po’ di mesi e quel discorso che ancora ricordo: “vado io da lui, lì stiamo meglio, possiamo almeno pensare a un futuro, cioè qui che facciamo?”. Ciao ciao Angelo, un altro che se ne andava, con una rabbia strozzata in gola, la mia, di non potergli dare torto, e una voglia legittima di futuro e rispetto, la sua, che prendeva il volo.

Parlando con un amico in comune, ho saputo qualche settimana fa che Angelo è sposato da due anni con un altro ragazzo, diverso, questo conosciuto a Barcellona. “L’ho sentito, sta bene. Gli manca l’Italia, e sta pensando di tornare a vivere qui con suo marito, anche se il loro matrimonio sarebbe registrato come unione civile, ma ci sta pensando”. Angelo sta pensando di tornare a fare qui la sua vita, ora che con le unioni civili ci sono dei diritti in più. Sta pensando di tornare qui a costruire la sua felicità e in questo modo, inconsapevolmente forse, di tornare a lottare anche per quella degli altri.

Eccola allora la mia risposta, quella che forse non mi ha fatto mai partire, quella che nonostante l’estate berlinese, mi diceva che è qui che dovevo, che volevo rimanere. Qui, per cercare nel mio minuscolo di cambiare le cose, anche per chi non poteva, per chi non voleva, e così, partiva. Qui, per farli tornare a casa prima o poi, tutti quei cuori fuggiti lontano.

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  • Francesco Dell'Acqua |

    Caro Emiliano, rispondere grazie con grazie. Sembra quasi concedersi ad un formalismo cortese, ma non in questo caso. La generosità con cui anche tu hai raccontato te stesso mi ha emozionato. Perchè so bene il prezzo che costa, tornare dentro certi giorni per trasformarli in parole.
    Un abbraccio, e continuiamo ad essere felici, perchè come diceva Alda Merini, la felicità è la miglior vendetta. Ma soprattutto, aggiungerei io, la miglior ricompensa per chi ha lottato tanto per esserlo.

    Francesco.

  • Francesco Dell'Acqua |

    Buona fortuna e buona vita a tutti noi. Ovunque ci si trovi.
    Francesco.

  • Roberto Sormani |

    Caro Francesco,

    Grazie di aver raccontato le storie di chi lascia il paese e la famiglia per realizzare la propria vita affettiva nel modo più completo.
    Aggiungo che, anche da fuori, si può fare molto per cambiare le cose. A Londra abbiamo fondato Wake Up Italia – London, che da oltre un anno lotta per dare sostegno al movimento LGBT italiano anche da fuori.

    Anche da lontano, non ci si dimentica dei nostri amici che, come te, hanno scelto di restare.

    Buona fortuna a noi!

  • Emiliano |

    Difficilmente commento gli articoli che leggo. Lei però stavolta ha descritto la mia storia cominciata quasi vent’anni fa quando dalla provincia del sud sono andato a vivere prima a Milano e poi da Milano a Monaco. Sono sincero forse non avevo mai riflettutto sui motivi che per tanti anni mi hanno tenuto lontano da casa mia e averli letti così chiari mi ha fatto un po’ male perchè un po’ mi sono arrabbiato con me. Ma erano altri anni e avevo un altro cervello volevo tutto subito. Sono tornato da quattro anni per motivi familiari ma ne ho conosciuti tanti anche io di cuori fuggiti a Monaco e molti non sono tornati e forse non torneranno mai. Per però ed oggi viviamo in un Italia che è cambiata anche grazie a chi non se ne è andato o a chi se ne è andato ma è tornato. Grazie per il suo articolo che racconta anche la mia storia.

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