Ci sono lavori per i quali avere trent’anni significa aver già percorso un bel pezzo di strada. In cucina, per esempio, essere un millennial equivale ad avere oltre dieci anni di lavoro alle spalle e aver maturato la consapevolezza che serve ampliare il proprio sguardo (e la propria testa) per fare bene il proprio mestiere. “Ho lavorato con grandi chef italiani (Biasetto, Marchesi, Alajmo ndr.) ma se non avessi lasciato l’Italia – racconta Riccardo Canella, 31 anni, sous chef al Noma di Copenaghen – non mi sarei mai reso conto di tutto quello che serve per fare di un ristorante un’impresa. Non avrei capito che la cucina è importante tanto quanto la parte gestionale, e che è da qui che bisogna partire per far funzionare le cose”.
Riccardo ha fatto le valigie tre anni fa. È partito prima con la testa, e poi con il corpo, sfogliando le pagine di un libro: Noma. Tempi e luoghi della cucina nordica dello chef danese René Redzepi. “Mi sono innamorato di quel libro, di quella cucina, ma soprattutto della capacità di valorizzare le materie prime. Ricordo infatti di essermi chiesto perché in Italia, pur avendo così tanti prodotti eccezionali, fatichiamo a valorizzarli”, spiega Canella. Una domanda che l’ha spinto, nel settembre 2014, a entrare come stagista al Noma (per ben quattro volte il miglior ristorante del mondo secondo la classifica The World’s 50 Best Restaurant) e ad accettarne tutto: compresi i ritmi massacranti e il livello di stress altissimo. “Lavoravo circa 80 ore alla settimana ma la cosa più difficile – rivela Riccardo – è stata tenere il ritmo, non cedere alle difficoltà e adattarsi il più in fretta possibile ai cambiamenti”.
Il Noma e il suo fondatore sono, infatti, noti in tutto il mondo per la sperimentazione continua, sia in cucina, sia a livello di business. Un’attitudine che di recente ha portato Redzepi a chiudere la storica sede del ristorante nella capitale danese per aprire una fattoria urbana. “Sono pochi i grandi cuochi – racconta Canella – che riescono a essere anche dei bravi imprenditori perché è difficile essere sia creativi, sia organizzati. Qui però ho imparato che è necessario circondarsi di professionisti – come ceo, general manager, responsabile hr, cfo – capaci e creare una struttura aziendale solida che sostenga la parte creativa”.
Un binomio che in Italia non è invece così frequente. “In Italia – continua il sous chef – si fatica a pensare un ristorante come a un’impresa che deve crescere. Nel nostro Paese, anche nell’alta cucina, prevale ancora il concetto della ristorazione a conduzione familiare. Salvo qualche eccezione, mancano sia una vera cultura imprenditoriale, sia investitori disposti a finanziare nuovi progetti”. Con il risultato che a essere penalizzati sono proprio i giovani chef che, senza un nome importante o una famiglia alle spalle, stentano a mettersi in proprio.
La lezione del Noma, secondo Canella, non si applica solo alla parte economica, ma anche a quella umana della ristorazione. “Lavorare nell’alta cucina ha sempre significato mettere da parte se stessi e la propria vita privata. Per anni le cucine dei ristoranti, a causa dei turni di lavoro massacranti e degli alti livelli di stress, hanno creato uomini pieni di problemi psicologici, con storie di dipendenza da alcol o da droga e con famiglie distrutte alle spalle”, rivela il sous chef. Per questo motivo nel nuovo locale che aprirà entro l’anno, René Redzepi ha deciso di adottare ritmi di lavoro più distesi (“lavoreremo solo quattro giorni alla settimana”) e assumere più donne “perché la parità di genere crea anche una cucina più bilanciata”.
“Molte persone – racconta Canella – pensano che lo chef sia un mestiere da uomo. Io invece credo che le donne abbiano un tocco in più ma bisogna dar loro l’occasione di dimostrarlo creando un organizzazione del lavoro che sia più a loro misura, che non le obblighi a rinunciare alla famiglia. Per gli uomini finora è stato più facile perché per loro fare carriera non ha significato rinunciare ai figli o alla persona che ami”. Si tratta però di un soffitto di cristallo che, secondo il sous chef, sta già iniziando a scricchiolare: “Penso a Jessica Natali che è entrata al Noma a 19 anni e ha ottenuto un contratto grazie alla sua bravura e alla sua caparbietà. Inoltre credo che, in generale, per fare lo chef oggi serva soprattutto una gran testa. E le donne in questo partono privilegiate”.