Ai tempi dei social media si muore ancora, o forse ai tempi dei social media si muore anche pubblicamente. Nel mondo c’è un tentativo di suicidio ogni 40 secondi, lo dice l’Organizzazione Mondiale della Sanità e nella fascia d’età tra 15 e 29 anni il suicidio è la seconda causa di morte. Se sei affetto da disordini mentali, malattie croniche o disabilità i tuoi fattori di rischio si moltiplicano per 3, e puoi avere più bisogno di aiuto di altri.
Facebook che di giovani in questa fascia d’età se ne intende ha ben presente il problema e cerca di gestirlo. Lo fa ormai da anni. Ha iniziato nel 2015 con un semplice tasto per segnalare i soggetti a rischio suicidio, oggi il tasto è diventato una missione, la volontà di tenere le persone al sicuro, di aiutarci a vicenda, come ha scritto lo stesso Mark Zuckerberg.
Partono così i test negli Stati Uniti per usare l’intelligenza artificiale a beneficio dei soggetti a rischio, per trovare pattern, similitudini tra i post anche quando questi non vengono segnalati, parole chiave da abbinare per riconoscere chi sta attraversando un momento difficile della propria vita.
O strumenti di prevenzione per chi sta guardando il Facebook Live della persona considerata in pericolo: chi vede un filmato da cui si percepiscono intenzioni di suicidio potrà mettersi in contatto con l’amico, mentre per l’utente in difficoltà compariranno delle opzioni per chiedere aiuto ad amici o ad assistenza qualificata.
Al tempo dei social media c’è anche chi continua a morire di malattia, ma meno pubblicamente. E’ il mondo silenzioso dei 250 hospice (o ‘strutture residenziali di cure palliative’) che magari non hanno una pagina Facebook ma che in Italia accompagnano gli oltre 2000 pazienti terminali che ogni anno non troverebbero la stessa dignità nel fin di vita nei normali ospedali sul territorio. Una scelta che nulla a che fare con l’eutanasia o il suicidio assistito.
Sono pazienti che muoiono a causa di patologie che nella fase terminale sono caratterizzate da dolore, come il cancro, pazienti con un’aspettativa di vita di pochi mesi, assistiti gratuitamente grazie alla legge n. 39 del 26 febbraio 1999, che ha sancito il diritto dei cittadini ad accedere all’assistenza fornita dagli hospice, sull’esperienza già collaudata in Inghilterra.
Ce ne parla Valentina Siddi, responsabile dell’hospice di Inzago di Fondazione Sacra Famiglia, che dal 2013 ad oggi ha accompagnato, confortato e sostenuto più di 400 persone, tra familiari e caregiver, nel rispetto della persona e della sua dignità:
‘La persona che nelle diverse fasi di progressione della malattia si avvicina alla morte deve poter ricevere un’assistenza che, qualitativamente, contiene segni evidenti di un’umanizzazione generalizzata delle cure. Sapersi occupare della persona che muore, significa avere la capacità di confrontarsi con tante differenti “storie” umane anche ricche di esperienze di vita, anche faticose. Il saper stare a fianco della persona che muore, cogliendone e comprendendone le sofferenze, rispettandone i desideri anche in ordine al luogo dove essere curata o dove morire, il saperla aiutare ad attraversare il confine della propria esistenza, rende più facile elaborare la perdita, anche in chi sopravvive.’
La disabilità e la malattia senza cura portano a decisioni estreme, ti sembra di essere solo e impotente, il richiamo alla depressione è sempre dietro l’angolo: eppure la tecnologia oggi aiuta a fare da ponte con il territorio, prima non c’era e ora c’è.