Il caso Kirghizistan arriva in aula. Giovedì 2 febbraio 2017 si terrà al Palazzo di Giustizia di Savona, davanti al giudice Francesco Meloni, l’udienza preliminare relativa all’inchiesta sul caso dell’ente adottivo di Albenga Airone Onlus, accusato di avere truffato 21 coppie con la promessa di adottare un bambino in Kirghizistan. Le coppie avevano già versato le quote richieste per completare l’iter e in molti casi, cosa ancor più grave, già incontrato ed abbracciato quei bambini che sentivano profondamente figli, per poi scoprire in un secondo momento che non erano adottabili. Dalle denunce di alcuni di loro è partita l’inchiesta, che oggi arriva finalmente a una svolta. Abbiamo incontrato Fabio Selini, uno degli aspiranti genitori coinvolti nella vicenda e che da cinque lunghi anni si batte per chiedere giustizia e non far cadere i fatti nell’oblio.
Fabio, potresti raccontarci brevemente la vostra storia?
Dal 2005 siamo una famiglia adottiva. In quell’anno è arrivata Daria, una bellissima bimba di tre anni proveniente da San Pietroburgo. Dopo qualche anno abbiamo sentito un forte desiderio di accoglienza per un secondo figlio. Così abbiamo ripercorso l’iter consueto fino a rivolgerci all’Ente con il quale avevamo già adottato Daria, Airone Onlus. Ci è stato proposto un nuovo “canale” adottivo in Kirghizistan, Paese appena “aperto” con la possibilità di adottare in tempi relativamente brevi. Ci venne garantito che il percorso, nonostante possibili intoppi dovuti all’essere “coppie pilota”, era sicuro e specchiato. A quel punto, avendo un enorme credito di fiducia verso l’Ente, abbiamo accettato. Abbiamo fatto i documenti richiesti e atteso fino a quando, nel luglio del 2011, abbiamo avuto un abbinamento con un bambino di nome Michail. Di lì a pochi giorni saremmo dovuti volare a Bishkek per incontrarlo, fare l’udienza e poi tornare. Una settimana prima del viaggio, l’Ente ci informò che la partenza era procrastinata a data da destinarsi causa intoppi burocratici. Così abbiamo atteso per oltre 11 mesi fino a quando, un giorno di giugno 2012, l’Ente ci ha dato la notizia che il nostro abbinamento era sfumato a causa di motivazioni legate a vincoli parentali del bambino.
Di fronte a questa mazzata, dopo un periodo di scoramento, abbiamo deciso di accettare un nuovo abbinamento con un bimbo di circa tre anni di nome Vladimir. Ricordo sempre che fino ad allora e per qualche mese a seguire, la nostra famiglia aveva una fiducia completa sull’operato dell’Ente e mai avremmo dubitato di quanto riportatoci. Verso la fine di giugno 2012 siamo arrivati a Bishkek (con noi c’era anche Daria) e siamo stati presi in carico dal responsabile locale, tale Alexander Angelidi, e da quella che risultava la nostra referente, Venera Zachirova.
Abbiamo incontrato il nostro bimbo e “fatto famiglia” per sette giorni. Ci era permesso di uscire con lui dall’istituto e di portarlo in albergo, di fare passeggiate nel parco, di andare al luna park. Ovviamente sempre sotto la tutela di un rappresentante dell’Ente in loco.
In quei giorni ho sempre avuto una strana sensazione, come se qualcosa non tornasse. Di contro mi dicevo che “eravamo coppie pilota e che qualche contrattempo ci poteva stare”, “che ogni Paese ha le sue procedure e i suoi tempi”, che “durante il secondo viaggio avrei chiesto alcune cose”. Quindi ho accettato senza protestare alcune situazioni che mi parevano bizzarre, come non incontrare mai il direttore dell’istituto, sostare per ora fuori dall’orfanotrofio su un pulmino in attesa che Angelidi ci facesse entrare, essere sistematicamente controllati in ogni spostamento e tanto altro come ad esempio un’udienza collettiva in tribunale (rivelatasi mesi dopo, secondo la stampa kirghisa, una farsa con falsi giudici) e una in albergo. Tornato, ho visitato la sede di Airone di Azzano San Paolo palesando questi miei dubbi, che ammetto allora non erano affatto avvalorati da preoccupazione reale. Il rapporto fiduciario mi garantiva sicurezza. Del resto quando ti affidi a un Ente, ti fidi di lui. Non può che essere così. Intorno a fine luglio 2012 scoppiò lo scandalo delle adozioni in Kirghizistan e il blocco di tutte le pratiche. Ovviamente ci spaventammo moltissimo e chiedemmo spiegazioni all’Ente che ci rassicurò, continuò a rassicurarci per mesi. Fino ad una riunione di fine settembre 2012 ad Azzano San Paolo nella quale comprendemmo che il destino della nostra adozione era drammaticamente segnato.
A chi vi siete rivolti in un primo momento? Qualcuno vi ha ascoltato e sostenuto?
Come dicevo, da settembre 2012 ci fu chiaro che la situazione era compromessa e che bisognava agire per provare a rimediare. Contattai la CAI, scrissi e-mail raccontando l’intera storia e le nostre preoccupazioni, chiesi alla Commissione di prendersi carico degli iter. Venni ricevuto, a dicembre 2012, in CAI dall’allora vicepresidente Daniela Bacchetta, alla quale raccontai le medesime vicende inviate per posta elettronica. Intanto dal Kirghizistan arrivavano notizie di arresti e corruzione. Decidemmo di denunciare i fatti alla Magistratura di Bergamo. Nel 2013 fu ufficializzata dalla CAI la revoca dell’Ente Airone Onlus e, quel che è peggio, la chiusura delle adozioni in Kirghizistan; nessun bambino kirghiso ha mai più rivisto quei genitori italiani. La nostra famiglia non ha più incontrato Vladimir.
Cosa è successo in questi cinque anni?
In questi cinque anni è successo di tutto, forse troppo. È successo che è scoppiato il peggior scandalo delle adozioni internazionali degli ultimi vent’anni che è passato incredibilmente sotto silenzio. È successo che la mia famiglia ha perso un figlio, un figlio che non ha mai più incontrato. È successo che abbiamo perso la fiducia nel sistema adottivo. Abbiamo trascorso anni di dolore e sofferenza. A causa della nostra denuncia abbiamo subito minacce e intimidazioni. Mia figlia ha perduto un fratello e ha cominciato a porsi domande drammatiche sulla sua adozione. L’Ente è stato revocato. È successo che la magistratura ha indagato e che ora, il 2 febbraio 2017, ci sarà l’udienza preliminare a carico dei presunti responsabili di questa orribile vicenda.
A nostre spese, e attendendo circa altri due anni, abbiamo dato mandato ad un altro Ente (è stato difficile affidarsi nuovamente e soprattutto fidarsi). Siamo volati in Brasile e siamo tornati con il meraviglioso Otavio. La nostra famiglia è rinata, ma un pezzo di cuore è pieno di cicatrici che ogni tanto sanguinano ancora. Per anni (ancora oggi) abbiamo chiesto alle autorità italiane di contattare quelle kirghise per chiedere notizie dei bambini coinvolti, senza alcuna pretesa su di loro, solo per saperli sicuri e felici. Molti politici ci hanno manifestato la loro solidarietà, una solidarietà sterile che non ha condotto a nulla se non a qualche interrogazione parlamentare ignorata e impegni del Governo non rispettati. È successo che… nessuno ci ha mai chiesto scusa.
Avete adottato un altro bambino nel frattempo, dove avete trovato la forza per ricominciare?
La forza di ricominciare si trova grazie alla grande consapevolezza di cosa significhi la parola “accoglienza”. Accogliere un figlio e farsi accogliere da lui è magia, gioia, futuro al quale non si deve rinunciare. Otavio è arrivato nella nostra famiglia non per sostituire Vladimir, ma perché sentivamo forte il desiderio di accogliere un figlio. Perché, come dico sempre ai miei figli, “l’amore non si divide, si moltiplica”.
Qualcuno vi ha “favorito” nell’iter alla luce della vicenda di cui siete stati vittime?
Bisogna capire cosa si intende per “favorito”. Se si intende che la CAI ogni tanto chiedeva al nostro nuovo Ente a che punto era il nostro iter, sì. Se si intende altro… no. Nessun aiuto economico, nessuno sconto di tempo, nessun favoritismo. E ci mancherebbe altro…
Che cosa ti aspetti da questo processo?
Non lo so. Ammetto che la mia verve vendicativa e la mia rabbia si sono notevolmente diluite col tempo. Del resto il mio giudizio morale sull’intera vicenda è palese, chiaro, cristallino. So chi ha tradito me, la mia famiglia e quei bambini indifesi. So chi poteva fare e non ha fatto. La nostra famiglia si costituirà parte civile, perché non possiamo fare altrimenti. Da questo processo mi aspetto semplicemente che venga chiaramente definita la nostra identità di vittime, che si riconosca il danno causato a bambini, mamme, papà e fratelli. Solo grazie a questo passo si potrà agire per garantire rispetto, risarcimento e futuro ai protagonisti sfortunati. Altrimenti questa storia non avrà mai una fine.