Se ne parla da quasi due anni in Germania e la ministra della Famiglia ci crede moltissimo: questa settimana è finalmente arrivato alla fase di approvazione del parlamento tedesco il disegno di legge che obbliga le aziende con più di 200 dipendenti a rendere noti i dati salariali, mettendo così in evidenza se persone con lo stesso profilo e ruolo ma di sesso differente sono pagate in modo diverso. Le aziende con oltre 500 dipendenti saranno inoltre obbligate a pubblicare regolarmente dati sulle retribuzioni per dimostrare di star osservando le leggi sulla parità di trattamento economico.
Così, in un Paese in cui il divario salariale cosiddetto “di genere” supera il 20%, si comincerà a parlare di soldi nei corridoi degli uffici, e le impiegate potranno chiedere chiarimenti sul perché il vicino di scrivania, così simile a loro ma magari senza figli, guadagna il 15% in più. La domanda è: si riuscirà così a rompere un tabù – che in Germania pare essere molto diffuso, ma che una ricerca della società per l’impiego Glass Door rivela essere simile in paesi come gli Stati Uniti, l’Olanda e l’Inghilterra – per cui le persone, in particolare le donne, non parlano volentieri di soldi?
Sempre Glass Door rileva infatti che un maggior numero di uomini (59%) ritiene di avere accesso a queste informazioni rispetto alle colleghe (51%) e sono ancora gli uomini (73%), più delle donne (64%), a ritenere che maggiore trasparenza su questa informazione avrebbe un effetto positivo sul business e sulla soddisfazione dei dipendenti.
Negli Stati Uniti esiste già qualcosa di simile: l’amministrazione Barak Obama ha lanciato il White House Equal Pay Pledge nel giugno scorso e sono già oltre 100 le società che hanno aderito volontariamente a rendere pubblici i propri dati. Della lista fanno parte ad esempio: AT&T, eBay, The Estée Lauder Companies, InterContinental Hotels Group, Mastercard, Yahoo, Square a Zillow Group. Ci sono poi aziende che fanno anche un passo in più, come Whole Foods, che permette a tutti i dipendenti di conoscere salario e bonus dei colleghi per l’anno precedente; Salesforce, che ha speso quasi 3 milioni di dollari per eliminare il divario salariale e Buffer, una startup tecnologica, che rende addirittura pubblici i dati sul reddito di tutti i propri dipendenti.
“Dobbiamo rompere il tabù che non si parla di soldi, perché è l’unico modo per essere sicuri che non si sfrutti la contrapposizione uomo/donna sul tema salariale” ha commentato la ministra tedesca Manuela Schwesig, dicendo che la legge è una vera e propria rivoluzione in merito.
In Italia è di marzo 2015 una proposta di legge di Pippo Civati che aveva proprio l’obiettivo per “le imprese e le organizzazioni di garantire la trasparenza e la pubblicità della composizione e della struttura salariale della remunerazione dei propri dipendenti, avendo cura di non indicare alcun elemento identificativo personale, salva la appartenenza di genere”. Sul tema sta lavorando anche l’advisory board di Alley Oop, che riunisce manager, professoresse universitarie, professioniste e imprenditrici e una proposta concreta alle istituzioni potrebbe già arrivare entro la prima metà di quest’anno. Ma questo, come altri temi cardine se si volesse davvero colmare il gap di genere del nostro Paese, devono trovare posto nell’agenda politica delle strategie per crescere, non solo economicamente.