“È stato amore a prima vista. Ci siamo guardati e ci siamo riconosciuti subito. È come se fosse stato da sempre con noi. Non poteva che essere lui nostro figlio.” Frasi di questo tipo tornano spesso nei racconti dei genitori adottivi. L’incontro tanto atteso con i nostri figli è spesso raccontato a tinte rosa, come guidato da una magica alchimia. Ma cosa succede quando questa sintonia non scatta? Quando per qualche motivo questo riconoscimento reciproco non avviene, né nei primi momenti, né negli anni successivi?
Il timore che il bambino possa in qualche modo rifiutarci è un’emozione con cui tutti gli aspiranti genitori fanno i conti nel lungo periodo dell’attesa. “Gli piacerò? Mi accetterà? Si fiderà di me?” Mettiamo già in conto, in qualche modo, di doverci conquistare l’amore e la fiducia dei nostri figli. Sono bambini feriti, con storie anche pesanti alle spalle, che hanno avuto esperienze negative con adulti che avrebbero dovuto proteggerli e prendersi cura di loro, e che invece li hanno delusi. Ci vuole del tempo perché si rifidino di altri adulti.
Mi sono imbattuta in rete in una coraggiosa testimonianza di qualche anno fa ma dal valore universale, che vi invito a leggere, e che è un vero pugno nello stomaco, una storia di sofferenza per tutti i protagonisti coinvolti. A scrivere è una mamma che ha adottato la seconda bambina, che all’epoca aveva 6 anni, dopo avere avuto una figlia dalla propria pancia. Racconta la storia difficile della sua famiglia, “meno ‘rosea’ di altre, nella speranza che altri forse possano rispecchiarsi e confrontarsi con noi”. Una narrazione schietta, senza false giustificazioni, tant’è che la mamma dichiara fin dall’inizio: “Il problema è che in me, mamma (più che nel resto del sistema familiare), è nato un forte rifiuto, apparentemente in parte inspiegabile, verso nostra figlia. […]Una parte di me voleva questa seconda maternità con tanta forza da aver superato gli anni di attesa e trafile che tutti noi genitori adottivi conosciamo bene. E un’altra parte di me rifiutava questa bambina (con tutti i sensi di colpa collegati): il suo essere autocentrata, prepotente, furba, manipolatrice… (come tanti bambini poi) mi mandava in bestia”.
Questo racconto squarcia un velo su un vero e proprio tabù: cosa succede quando il rifiuto coinvolge gli adulti? Un tema di cui poco o niente si parla, forse per cultura o per una sorta di pudore da parte dei genitori ad ammettere le difficoltà, le fatiche e le crisi personali, dopo avere tanto desiderato e voluto e aspettato questi figli? Certo è che bisognerebbe invece affrontare a tutti i livelli la questione per capire dove e come intervenire per prevenire ed evitare possibili fallimenti adottivi, di cui invece spesso si vocifera ma su cui ben poco si sa ufficialmente e su cui i numeri sono contradditori.
L’adozione è l’accoglienza dell’altro da sé, e non semplicemente un modo per dare un bambino a una famiglia che non ce l’ha, come spesso viene interpretata dal senso comune. E in questo racconto il tema della difficoltà dell’accoglienza della diversità (con tutte le connotazioni che questa può avere, somatica, culturale, comportamentale, di valori…) torna più volte.
Scrive questa mamma: “Nella mia superficialità e presunzione preadottiva, credevo di non dover trovare grandi difficoltà nell’adozione di R. Noi, ‘una coppia solida, colta, socialmente impegnata e politically correct’ ce l’avremmo fatta sicuramente”, per poi lucidamente ammettere: “Durante la terapia ho scoperto che io (o noi) non avrei dovuto ricevere l’‘idoneità’ per adottare, e men che meno per adottare bambini grandi. E io sono d’accordo. Non tutti siamo capaci di adottare […] I genitori andrebbero preparati e seguiti molto bene”.