I partecipanti al G20 della finanza, in Cina, si mettono in posa per una foto ricordo: sono in 52. Solo tre sono donne, poco più del 5%. Delle tre donne una è l’inossidabile Christine Lagarde, a capo del FMI, mentre manca Janet Yellen, presidente della Federal Reserve.
Nella maggior parte dei paesi del G20 le donne possono votare, possono guidare l’automobile, possono chiedere il divorzio e aprire un conto in banca. Ma non riescono a partecipare alle decisioni importanti per il loro Paese e per il mondo: decisioni che poi colpiscono direttamente, a fondo, sia loro che le loro famiglie.
Sono disastrosamente sottorappresentate, nonostante sia ormai stato provato più e più volte che, dove aumenta la diversità, migliora la qualità delle decisioni.
E di sicuro finanza ed economia godrebbero di una migliore qualità decisionale, di qualche punto di vista diverso, considerato dove ci ha portati l’attuale prospettiva uniforme e compatta, al punto che gli stessi cosiddetti “grandi” hanno fatto autocritica all’ultimo incontro di Davos. Eppure le donne sono ancora tagliate fuori, escluse dai tavoli delle decisioni importanti, e nessuno se ne domanda il perché.
I possibili motivi:
1) vige la meritocrazia e le donne “non ce la fanno”: hanno meno meriti, capiscono di meno, sono meno adatte al ruolo di ministro delle finanze o capo della banca centrale di un Paese;
2) alle donne non interessa decidere per il proprio futuro e per quello del proprio Paese, quindi si tirano indietro di fronte a ruoli di potere;
3) veniamo da una situazione – ancora recente – in cui tali posizioni non erano aperte alle donne (fino a 50 anni fa, una donna in Italia non poteva diventare giudice*): questo causa un enorme squilibrio di partenza e rende il genere femminile a tutti gli effetti ancora oggi “una minoranza”, che quindi resterà tale se si lascia lavorare il sistema secondo le regole attuali.
Le regole di un sistema per loro stessa natura infatti NON rappresentano, non tutelano e non fanno avanzare le minoranze: perpetuano e tendono a privilegiare invece la maggioranza. E, se c’è bisogno di prove che questo sia vero, basta guardare questa foto.
E’ facile propendere per la terza ipotesi, ma questo che cosa vuol dire? Vuol dire, come dice molto bene l’avvocata Giulia Bongiorno nel suo ultimo libro, “Le donne corrono da sole. Storie di emancipazione interrotta”, che non si può raggiungere la parità semplicemente trattando tutti, oggi, allo stesso modo. Donne e uomini partono da condizioni diverse, con criteri di merito che sono stati scritti dai secondi. O si prende atto di uno squilibrio di partenza e si lavora per forzare alcuni meccanismi, oppure l’uguaglianza resta solo apparente, e lo si vede nei risultati.
Forse non serve arrivare all’eccesso proposto da Gioconda Belli nel suo bellissimo “Nel paese delle donne”, dove l’eruzione di un vulcano abbatte temporaneamente i livelli di testosterone e questo fa salire al potere un partito di sole donne, che promulga una legge che per sei mesi taglia fuori gli uomini da tutti i pubblici uffici. Ribaltare lo squilibrio sembra loro l’unico modo per sperimentare un nuovo equilibrio.
Ecco, forse può bastare anche meno di così… ma qualche forzatura, qualche domanda, porsi la questione e vederne i limiti attuali, così come il potenziale di sviluppo positivo, visto che un maggiore mix di genere porta a risultati migliori: ecco, non è mai tardi per cominciare. E foto come quella del G20 dovrebbero spingerci a riflettere… e a darci da fare!
*Il 13 maggio del 1960, con la sentenza numero 33, la Corte Costituzionale diede ragione ad una ragazza di famiglia napoletana, Rosa Oliva, appena laureata in Scienze Politiche, che si era vista rifiutare l’ammissione al concorso per diventare prefetto, in quanto donna. Rosa volle ricorrere contro il ministero dell’Interno per quel rifiuto da cui si sentiva gravemente offesa. L’avvocato che sostenne la sua battaglia era un illustre costituzionalista, Costantino Mortati, suo professore universitario. La corte dichiarò l’illegittimità della norma contenuta nell’ articolo 7 della Legge 17 luglio 1919, che impediva l’ accesso delle donne alle principali carriere e uffici pubblici, in riferimento all’ articolo 51, primo comma, della Costituzione. Una sentenza storica per l’Italia sul fronte della parità dei sessi. Da quel momento in poi caddero le discriminazioni di genere e le donne diventarono prefetto, magistrato e molto altro ancora.