Ciao, vuoi giocare con me? I bambini si conoscono così, con semplicità e curiosità. Litigano e fanno pace. Si riempiono di spintoni e pizzicotti, e tornano a casa amandosi ancora di più. Si dimenticano l’uno dell’altro e poi si cercano con affanno. Ora in gruppo, ora solitari, costruiscono i loro giorni come una narrazione fantastica e raccontano grandiose balle, che non sono bugie, ma il libero gioco dell’immaginazione, Arte, come qualcuno scrisse molto meglio di me, qualche secolo fa.
Forse non lo confesserò mai a mia figlia, ma in questi pochi anni ha saputo insegnarmi più di quanto non sarò mai capace di fare con lei. Ridere perché si è felici e perché ridere rende felici, cantare a squarciagola in auto, inventando le parole di canzoni che non esistono, mangiare cioccolata al latte e preferire la pasta con il parmigiano. Gioire se si può, gustare, guardare, domandare. Ancora di più, mi ha ricordato che le cose che accadono sono sempre nuove e che tutte quelle su cui si posa lo sguardo devono avere un nome.
Mi ha guidato e mentre pensavo di tenere la sua piccola mano era lei che teneva la mia. Mi ha mostrato che la fiducia è alla base di ogni legame umano, non un guadagno, ma un dono da fare e ricevere. Mi ha portato a ballare in feste sudamericane e a bere vino bianco su terrazze che sapevano di mare, anche se a Milano il mare è lontano come le cose che non esistono più. Mi ha coinvolto in chiacchierate estemporanee con vecchi e bambini, tassisti e gattare, venditori di rose e pittori di strada. Ho imparato ad abbracciare, a sussurrare e a sospendere le parole e le ragioni, perché a volte non servono davvero a niente.
Oggi io le ho insegnato ad arrotolare gli spaghetti con la forchetta, ma il rapporto fra dare e avere è ancora ampiamente squilibrato. A lei non interessa e mi sta insegnando anche questo, e va bene così.