Un secondo, un badge e una cazzata

imageAnche questa settimana, il “Secondo Prima” viene da un lettore, Alessandro Bastasi. Ecco come ho interpretato il suo ricordo, coraggioso e incosciente a un tempo. Alzi la mano chi non ci ha pensato almeno una volta…

***

«Stai facendo una cazzata.»

È un mese che il mio capo me lo dice, da quando gli ho detto che me ne sarei andato. E me lo ripete anche adesso, nel suo ufficio, mentre guarda fuori da una finestra da cui si vede un prato verde, tosato, pettinato, e una fila di alberi uguali, potati nell’identica maniera.

Siccome è l’ultima volta che può farlo, decide di infierire. «Hai pensato a quello che perdi? Benefit, assicurazione sanitaria, una struttura che ti supporta in tutto… Sei parte di qualcosa di grande, di una famiglia…»

No, non ci avevo pensato, o forse solo per un attimo. Anche io non mi voglio tenere niente dentro, anche perché la famiglia, be’… la famiglia è un’altra cosa. «Non riesco a essere come te, come voi, come tutti gli altri qua in azienda. Non posso rimanere in un posto dove tutto è programmato, il mio ruolo, la mia carriera… le mie giornate. Ecco, io voglio giornate disordinate, non pianificate, ho bisogno di sapere che tutto è possibile.»

Finalmente il mio capo mi guarda. Scettico, incredulo, come se non mi riconoscesse e ci fosse un alieno davanti a lui. Quell’alieno sono io. «Ma possibile… cosa?»

Allargo le braccia. «Non lo so. Lo saprò quando la possibilità si presenta. Allora, per contrasto, si presentano anche le altre.»

«Per me sei fuori di testa. Sai quanti vorrebbero avere quello a cui tu sputi sopra?»

Sorrido. «Avanti il prossimo, allora, gli lascio tutto. Il portatile, il cellulare ultimo modello, la macchina aziendale… Anzi, li ho già restituiti, giù al personale.»

Il capo scuote la testa. Lascia che il silenzio sia la sua risposta e, quando mi parla di nuovo, capisco che mi ha già relegato nel passato. D’altronde, io ho già fatto lo stesso con lui, e non certo da oggi. Tende una mano verso di me. La muove rabbiosamente. «Allora dammi il badge e levati dai piedi.»

Il badge. Non so perché, ma è la cosa più difficile. Consegnarlo  significa che davvero è tutto finito, che qua dentro non ci potrò più entrare. Lo tiro fuori di tasca e lo tengo tra le dita, ma non riesco a porgerglielo, come se ogni strisciata che ho fatto giorno dopo giorno avesse un peso e adesso rendessero quel rettangolo di plastica impossibile da spostare.

Capisco di avere un secondo di tempo. E non riesco nemmeno a riempirlo con un respiro. Il capo afferra il mio badge, è tornato leggero visto che quasi me lo strappa via.

«In bocca al lupo» dice. La questione per lui è chiusa. Per me lo era già.

***

Un secondo. Quanto dura un secondo? Così poco che per scrivere queste poche parole ne ho impiegati una decina. Però non tutti i secondi sono uguali. Alcuni hanno il potere di dilatarsi sino a segnare l’avvenire. Il secondo in cui abbiamo chiuso gli occhi per il nostro primo bacio, quello in cui sono venuti al mondo i nostri figli, quello in cui abbiamo salutato per sempre una persona cara. Questi ce li ricordiamo tutti. Ma il second.o precedente cos’è successo? Quale tumulto agitava le nostre menti e i nostri cuori? Ecco, le storie della domenica racconteranno questi “secondi prima” dei secondi eterni, quelli in cui gli occhi stavamo per chiuderli, le mani per lasciarle o prenderle. Momenti veri o immaginari, vissuti da personaggi più o meno pubblici o ignoti o anche solo da me (ogni autore è narcisista).  Perché forse ce li siamo scordati, eppure non sono mai andati via. Quali sono i “Secondi Prima” dei secondi che hanno cambiato la vostra vita? Raccontateli a giulianopasini@gmail.com e, se vorrete, diventeranno storie.