“Non meno che perfetti”: quando il perfezionismo rende i bambini infelici

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Elena è un bambina di otto anni, bravissima a scuola. Tuttavia, racconta la mamma, fin da quando è piccola se non riesce subito in qualcosa si innervosisce moltissimo: se un calcolo non torna, una frase non è scritta bene o se qualcosa le sembra imperfetto, strappa, cancella e ricomincia da capo. Passa un tempo infinito a guardare e riguardare quello che ha scritto, attenta ai minimi dettagli, con atteggiamento dubbioso e ostinatamente ipercritico. Quando fanno i compiti insieme, la mamma inizialmente le dice di non preoccuparsi, la incoraggia ad andare avanti, ma alla fine anche lei si arrabbia e le serate si concludono tra strappi, pianti e sensi di colpa.

Per molti bambini il back to school non coincide con un momento sereno: il desiderio di ritrovare gli amici, di giocare e di divertirsi non bilancia la fatica dello studio e il timore del giudizio. Non vivono il tipico alternarsi di giornate e di emozioni, che vede il susseguirsi di momenti in cui ci si sente bravi ed altri in cui lo si è un po’ meno, di mattine nelle quali ci si sente baciati dalla sorte (“fortuna che non mi ha interrogato oggi”) ed altre in cui si scopre il proprio ingegno (“non avevo studiato ma ci sono arrivato lo stesso!”). Molti bambini sembrano oppressi da un vissuto che quasi cancella tutto il resto: la paura di non essere perfetti. Vivono la scuola, e più in generale ogni prestazione, con il terrore di non riuscire, di sbagliare, di non avere buoni voti, di non essere capaci, come nelle parole del Leviatano di Paul Auster: “Accettava la fragilità di tutti gli altri, ma quanto a se stesso pretendeva la perfezione, un rigore quasi sovrumano anche nei gesti più piccoli. Di qui la delusione, una consapevolezza sconcertante della sua fallace umanità, che lo induceva a imporsi regole di condotta sempre più severe, le quali a loro volta sfociavano in delusioni sempre più soffocanti“.

Il perfezionismo è un tratto complesso e multidimensionale e sulla sua natura, adattiva o disadattiva, il dibattito tra gli studiosi è ancora aperto. Da un lato c’è il perfezionismo caratterizzato da alti standard personali, o self-oriented, che sembra avere anche risvolti positivi, associandosi a tenacia, forte motivazione e a comportamenti utili al raggiungimento di obiettivi. Dall’altro, c’è il perfezionismo socially orientedcaratterizzato dal “timore del giudizio” altrui. I bambini appartenenti a questo secondo gruppo iniziano ad evitare le sfide per evitare i fallimenti, sviluppano un’attenzione selettiva per gli errori (ossia, vedono solo quelli e perdono di vista tutto il resto) e un pervasivo timore della critica, interpretano ogni minimo errore come fallimento, trasformandosi in severi giudici di se stessi. “Non sono capace”: il bilancio personale per alcuni bambini è sempre in difetto, anche a fronte di risultati scolastici positivi. Sebbene dunque il perfezionismo sembri costituire un tratto di personalità utile, di fatto molto spesso non lo è: la combinazione tra le due forme di perfezionismo che abbiamo citato, infatti, frequentemente si associa all’insorgere di disturbi d’ansia, in particolare scolastica, nel corso dell’età evolutiva.

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Spesso, ci dicono le ricerche, questi bambini sono figli di genitori perfezionisti, mamme e papà che non di rado hanno storie di successo scolastico e lavorativo, che si aspettano prestazioni elevate a scuola come nello sport, nell’apprendimento di una lingua o di uno strumento musicale. Cresciuto tra le mura del perfezionismo, in famiglie nelle quali i genitori stessi con grande fatica gestiscono il proprio limite, il bambino imparerà che non è accettabile essere less than perfect e soprattutto confonderà il risultato della prestazione con questioni di altra natura, che hanno a che fare con l’accettazione e con l’essere amati. Se poi, oltre al perfezionismo, i genitori presentano anche atteggiamento ipercritico e comportamenti ipercontrollanti, ad esempio nei compiti, nel metodo di studio e nei risultati, l’impatto sul benessere psicologico potrà essere particolarmente negativo. E’ indubbio che dietro il perfezionismo di un genitore vi siano anche aspettative positive, fondamentali per la crescita: desiderare che un figlio sia felice, che impari, che si adatti alle sfide complesse che la realtà gli presenta, che si impegni e provi a superare le difficoltà, che possa andare incontro ad un futuro lavorativo soddisfacente, è un dono che molti bambini non ricevono nel corso della vita. Tuttavia, se espresse attraverso alti standard, ipercritica e ipercontrollo, queste aspettative si trasformano in un sentiero pieno di insidie, che conduce in luoghi assai distanti dall’ambita perfezione e dalla serenità: i bambini perfezionisti, infatti, finiscono molto spesso per avere prestazioni inferiori agli altri e per essere, nel corso della vita, più infelici, avendo maggiori probabilità di sviluppare disturbi d’ansia, ossessivo-compulsivi e disturbi alimentari[1].

In un’epoca di perfezionismo, nella quale i processi educativi appaiono sbilanciati verso  un’edilizia del corpo e della mente, dobbiamo ricordarci che più importante di ogni altra cosa è l’edilizia emotiva. Per crescere sereno e fiducioso, un bambino ha bisogno di sentirsi accolto, accettato ed amato per quello che è e riesce ad esprimere. Ha bisogno di essere aiutato a superare le sfide, ma (contestualmente) anche ad accogliere con benevolenza le imperfezioni che lo abitano senza per questo sentirsi irrimediabilmente “sbagliato”. “La perfezione dell’uomo – diceva Sant’Agostino – consiste proprio nello scoprire le proprie imperfezioni”.

Se è vero che “il maturare è una temporalità che oggi va sempre più scomparendo”, come dice il filosofo Byung-Chul Han, dobbiamo però ricordarci che la crescita è un processo che si snoda nel tempo e che un bambino ha bisogno di tempo per maturare, per capire chi è, per trovare la propria vocazione in un mondo che lo vorrebbe “perfetto in tutto e perfetto subito”. Non tutti i bambini, poi, sono fatti per un certo sport o per stare seduti su un banco di scuola: come dimostrano le vite di illustri scrittori, scienziati e artisti, per alcuni la scuola ha confini troppo stretti, limitati, angusti, aridi, troppo rigidi e poco creativi.

Abbattere la tirannia del perfezionismo, a casa come a scuola, significa allora andare controcorrente, accogliere la tristezza e il dispiacere (magari per un passo di danza imperfetto o una nota stonata durante un saggio finale), contrastare il ragionamento “o sono bravo in tutto o non valgo niente”, interrompere il rimuginio sul valore personale e valorizzare il problem solving (propositivo e orientato alla concreta risoluzione di una difficoltà), allargare lo sguardo ed estendere l’orizzonte: perché accanto a qualcosa che non funziona alla perfezione, ci sarà sempre qualcos’altro che va bene e che rassicura, perché fa sentire che “vado bene”.

Rischiamo, anche noi adulti, di disperdere le nostre energie migliori in nome di una perfezione troppo spesso (e illusoriamente) associata al successo e alla felicità. Perdendoci, tra l’altro, quel che di umanamente prezioso si può incontrare nel territorio dell’imperfezione: il sorriso, la solidarietà, la compassione, l’ingegno, il coraggio e l’accettazione.

[1] Sassaroli, S., & Ruggiero, GM. (2005). The role of stress in the association between low self-esteem, perfectionism, and worry and eating disorders. Int J Eat Disord, 37: 135-141.