Cose che devono essere viste: il Festival della Fotografia Etica di Lodi

“Ci sono cose che semplicemente devono essere viste”

Questa frase, breve e potente, sintetizza le ragioni profonde che animano l’8° Festival della Fotografia Etica, in corso a Lodi fino a domenica 29 ottobre: l’impegno del Gruppo Fotografico Progetto Immagine e dei due coordinatori Alberto Prina e Aldo Mendichi è infatti “diffondere un tipo di fotogiornalismo più sensibile alle esigenze della società civile che alle logiche di mercato.”

Per tutto il mese di ottobre, durante i fine settimana, Lodi cambia faccia, lasciandosi festosamente invadere da più di una ventina di mostre principali in palazzi storici e in antiche chiese, almeno altrettante piccole esposizioni disseminate per negozi, bar, ristoranti e biblioteche, oltre che da numerosi incontri, workshop e conferenze con fotografi e personaggi del mondo della fotografia che raccontano le proprie avventure ed esperienze, spiegando che cosa li spinga, spesso, a rischiare in prima persona per far vedere quel che altrimenti non vedremmo e non sapremmo.

Girando per la città, si resta colpiti dalla quantità di gente che affolla le mostre e gli eventi e chiacchierando con qualcuno si scopre che c’è anche chi è tornato più volte, magari portandosi gli amici. In effetti le mostre, per lo più di alto livello, toccano temi che non possono lasciare indifferenti e rendono difficile scegliere di quali parlare.

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Daniel Berehulak – reporter australiano di origine ucraina – ci racconta la sanguinosa campagna antidroga scatenata nelle Filippine dal presidente Duarte (They Are Slaughtering Us Like Animals): i suoi scatti quasi sempre notturni, sotto una pioggia ossessiva e battente, illuminati da luci livide, creano un’inquietante atmosfera da Blade Runner, dove uomini e donne freddati per strada giacciono insanguinati davanti ai negozi o, come la diciassettenne Erika Angel Fernandez, sopra un mucchio di spazzatura. La vita sembra non avere più valore: i cadaveri sono appoggiati come travi di legno gli uni sopra gli altri nell’obitorio strapieno, esattamente come i detenuti sono stipati all’inverosimile in carceri sovraffolate. Berehulak non distoglie lo sguardo dalle realtà più cruente, le testimonia con immagini intense, che inchiodano l’evento al centro della composizione, bilanciata, coesa, spettacolare: la grande tradizione del reportage è al servizio della chiarezza e forza della comunicazione fin dal titolo, dato dalla frase sussurratagli da un passante, “ci stanno macellando come animali.” Eppure l’immagine finale, di un cimitero animato dalle luci dei parenti che, nella notte di Ognissanti, visitano i propri cari, lascia spazio finalmente a dei sentimenti, per quanto tristi, di umana pietà.

Un altro bellissimo racconto, questa volta dalla Colombia, dove il presidente Juan Manuel Santos (premiato con il Nobel per la Pace nel 2016) sta faticosamente cercando di costruire la pace dopo la più lunga e sanguinosa guerra civile dei nostri anni (50 anni di conflitto, 220.000 vittime), è quello del danese Mads Nissen (Hope Over Fear – Colombia’s Struggle For Peace): il Paese che le sue foto ci raccontano con attenzione, onestà e rispetto è un cantiere aperto di pacificazione, dove un bambino figlio di guerriglieri dorme beato, mentre alla spalliera del letto è appeso il mitra di papà, o due ragazze si sdraiano tra le foglie degli alberi di marijuana, che resta una fondamentale risorsa economica per molte famiglie.

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Il reportage a mio parere più bello è quello che Oscar Castillo (Nuestra Guerra – Nuestro Dolor, Violencia En Venezuela) dedica “alle cause e conseguenze della violenza in Venezuela”: lo sguardo di questo ancor giovane ma grande fotografo di Caracas è uno di quei progetti a lungo termine che formano l’ossatura del Festival, nella convinzione che ci voglia tempo e pazienza per conoscere una realtà e saperla poi raccontare. Castillo osserva la sua terra e gente, dalla parabola conclusiva del defunto, carismatico e controverso presidente Chavez, all’attuale, difficilissima situazione del Paese con Maduro: con un bianco e nero sensibile, duttile come un pennello, mai retorico, sa alternare campi lunghi con scene di massa -elezioni, il corteo funebre del presidente, proteste di piazza- a ritratti rivelatori dei sentimenti delle persone – lo studente che indossa una maschera con un foro di proiettile o il giovane bandito con occhiali da sole alla Top Gun che imbraccia arrogante i suoi mitragliatori -, ricorrendo talvolta al mosso o a inquadrature storte, drammatizzanti, altre volte risalendo come in un documentario vicoli e scale dei quartieri più nascosti, sempre e comunque emozionandoci, fino a isolare con geniale intuizione dei dettagli che diventano immediatamente simbolici, come il mazzo di fiori innalzato da una mano femminile durante una manifestazione o il disegno di un bambino a scuola che raffigura quel che vede tutti i giorni: scontri a fuoco per le strade.

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L’italiano Alessio Cupelli affronta invece una delle grandi questioni che ci tocca da vicino, quella dei migranti, con un servizio (Nadab, cicatrici in arabo) che segue la diaspora dei profughi attraverso l’Europa dell’Est dalla chiusura delle frontiere nel 2015 fino ai campi della Libia e della Giordania, utilizzando tutti i toni della tastiera del suo bianco e nero appassionato, ora drammatico ora poetico, capace di farci immergere tra il volto da Madonna, accarezzato dalla luce, di una giovane siriana addormentata sul pullman che la trasporta nella notte o il profilo elegante e disperato di un anziano siriano, vestito di nero di fronte al muro bianco, rimasto come una statua di sale alla notizia della chiusura delle frontiere che gli impedisce di raggiungere il figlio.

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Un altro lavoro a lungo termine è quello del francese Romain Laurendeau sulla sfrenata passione dei giovani algerini per il calcio (Derby): “Siamo cresciuti con il calcio, con lo stadio. Va al di là di qualsiasi cosa, anche della religione. Allo stadio si è liberi.” E le sue foto, scolpite in un bianco e nero potente, ci comunicano il pathos attraverso il quale un divertimento diventa passione totalizzante, valvola di sfogo e possibilità di dissenso politico.

Per finire voglio accennare a due lavori di reporter italiani, particolari per differenti ragioni.

Il primo è Donbass Stories – Spartaco And Liza di Giorgio Bianchi, che ci racconta la vicenda di un bresciano del lago d’Iseo, stufo di un lavoro precario e senza prospettive in Italia, che si arruola nelle milizie separatiste della Repubblica di Donetsk, città dove conosce Liza, donna ucraina abbandonata dal marito allo scoppio della guerra. La loro storia d’amore, intrecciata alla realtà del conflitto e della vita quotidiana del paese in retrovia, è resa con colori sfumati, una luce grigia e faticosa, per lo più in stanze umili e scure, e ha una poesia sottile e toccante che ci ricorda come la vita vada avanti, in ogni circostanza.

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Giancarlo Ceraudo in Destino Final conduce invece una vera inchiesta, assieme alla giornalista ed ex-desaparecida Miriam Lewin, sulle vittime dei cosiddetti viaggi della morte con cui la dittatura argentina si liberava degli oppositori, trasportandoli con aerei militari e gettandoli vivi nell’oceano. Questa vicenda agghiacciante, riportata alla luce dal paziente lavoro investigativo dei due coraggiosi reporter, ha portato al processo contro 3 piloti della morte. Le immagini di Ceraudo esplorano le celle degli edifici di tortura abbandonati, gli aerei militari in hangar dismessi, il lavoro degli antropologi per identificare i resti delle vittime, i sentimenti dipinti sui volti di chi ha visto scomparire i propri cari con una forza colma di rispetto e di umana partecipazione che rende palpitante il suo bianco e nero, nel quale le accensioni improvvise di luce, tra le ombre e i silenzi, ci insegnano il profondo valore di cui può ricaricarsi l’espressione “fare luce”.

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