Lavoro agile, smart working, lavoro flessibile: sono tanti i nomi che in questi giorni vengono utilizzati per indicare il disegno di legge “Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato”, approvato dal Parlamento lo scorso 10 maggio. Tanti nomi diversi creano, almeno in me, altrettanta confusione. Così, complice il fatto che il comune di Milano ha indetto, dal 22 al 26 maggio, la settimana del lavoro agile, ho pensato di fare una ricerca su Internet (e dove altrimenti?) per capire quanto ne sapevo davvero di questo tema. Risultato? Mi sono resa conto di non essere l’unica ad avere le idee un po’ confuse su cosa significhi davvero lavoro agile e su quali siano i vantaggi di questa novità. Per fare un po’ di chiarezza ho chiesto aiuto all’avvocata Giulietta Bergamaschi, partner dello studio legale Lexellent, che si occupa di diritto del lavoro.
Avvocata Bergamaschi, la legge sul lavoro agile è stata criticata per il fatto che è molto vaga. Lei che ne pensa?
Credo che la vaghezza non sia necessariamente un difetto. O almeno non lo è se si guarda a questa norma come a una legge di “passaggio” per creare un contesto normativo in cui sviluppare una nuova organizzazione del lavoro. L’intento del legislatore è stato quello di essere il più inclusivo possibile. In Italia, come sappiamo, ci sono imprese con caratteristiche molto diverse e una legge così formulata le lascia libere di adattare i contenuti fondamentali della norma alle proprie caratteristiche.
Ma non si rischia così di perdere alcune garanzie?
Se si riferisce al diritto alla disconnessione o alla sicurezza sul lavoro la norma dice chiaramente che nell’accordo individuale dovranno essere garantiti questi diritti.
Qual è allora secondo lei la criticità maggiore di questa norma?
È una criticità che ahimè nessuna norma può risolvere. Il lavoro agile elimina i vincoli del tempo e dello spazio ma non può funzionare se non cambia il contesto organizzativo delle aziende italiane e la mentalità degli imprenditori e dei lavoratori stessi.
In Italia però il tessuto imprenditoriale è costituito per la maggior parte da piccoli e medi imprenditori per i quali certi temi sono ancora un po’ ostici. I dati dell’Osservatorio della School of management del Politecnico di Milano dicono, infatti, che nel 2016 tra quel 30% di imprese italiane che hanno sperimentato il lavoro agile, solo il 5% erano pmi. Come si fa con loro?
Le pmi italiane sono indietro da tanti punti di vista e il lavoro agile è sicuramente uno di questi. La norma è stata però esplicitamente pensata per aiutarle visto che molte di loro non hanno aderito alla sperimentazione perché si sentivano bloccate dalla mancanza di un quadro normativo di riferimento. Inoltre la legge ha tentato di stimolarle a introdurre questa nuova organizzazione del lavoro eliminando l’obbligo (inizialmente previsto) di coinvolgere il sindacato.
Molti lavoratori che hanno aderito alla sperimentazione degli scorsi anni hanno dichiarato di essere molto felici del lavoro agile perché così sono riusciti finalmente a fare le lavatrici arretrate o andare a prendere i figli a scuola durante la pausa pranzo. Sono questi i vantaggi?
Il lavoro agile non dovrebbe essere il lavoro da casa, altrimenti si trasforma in una semplice delocalizzazione. Dovrebbe essere più che altro un lavoro in movimento che viene reso possibile grazie agli strumenti tecnologici forniti dal datore di lavoro.
La sperimentazione però racconta una storia diversa…
I dati raccolti finora mostrano che il 69% dei lavoratori agili sono uomini e che hanno circa 41 anni quindi direi che più che uno strumento di conciliazione è forse stato usato come uno strumento di condivisione. È vero però che finora è stato molto spesso erroneamente confuso ed equiparato al telelavoro perdendo così tutto il suo potenziale innovativo.
Spesso però sono le stesse aziende che puntano proprio su questo strumento per presentarsi come imprese che hanno a cuore il work-life balance dei propri dipendenti…
Il tema è più complesso. Di sicuro può avere effetti positivi da questo punto di vista ma alle aziende viene chiesto un cambiamento molto più profondo. Altrimenti il rischio è quello che tutto si trasformi solo in una grande operazione di marketing o di maquillage di diritto del lavoro.
E per evitare tutto questo cosa servirebbe?
Ci sarebbe bisogno di molta formazione, sia per il management, sia per i lavoratori. I manager dovrebbero, per esempio, imparare a uscire dalla logica del “ti vedo, ti controllo e allora so che stai lavorando”, e passare a una in cui al lavoratore viene affidato un compito sulla base di un rapporto fiduciario. Mentre i lavoratori dovrebbero, ad esempio, approfondire l’uso delle nuove tecnologie così da essere in grado di utilizzarle in modo consapevole e riuscire a sfruttarle per rimanere coinvolti nell’organizzazione. Questi però sono elementi che appartengono alla cultura organizzativa e che non possono essere imposti dal legislatore.
Quindi che cosa rappresenta davvero il lavoro agile per le aziende e per i lavoratori?
Per le aziende rappresenta sicuramente l’occasione di aumentare la propria competitività dandosi un’organizzazione più moderna che consenta alle persone di rendere di più. Per i lavoratori è invece, secondo me, un ottimo strumento di crescita. Avere qualcuno che ti controlla può rappresentare una tranquillità in più, ma rischia anche di deresponsabilizzare e appiattire le proprie possibilità di crescita lavorativa. Essere responsabili dei propri obiettivi e del proprio tempo è invece un modo per sviluppare nuove abilità che possono essere spese nel corso della propria carriera.