Generazioni di donne (e di uomini) hanno subito il fascino e l’incanto dei suoi occhi da cerbiatta, della sua frangettina corta, del suo sorriso irresistibile e della sua innata eleganza. Audrey Hepburn, mancata 24 anni fa, piace ancora oggi tantissimo.
La adorano le ragazzine, le millenial che non l’hanno mai conosciuta, ma che si immedesimano in quell’iconografia in tubino nero davanti alle vetrine di Tiffany, elegantissima, mentre mangia una brioche. Sbarazzina e un po’ irriverente, proprio come le adolescenti.
La adorano le quarantenni, che la citano come esempio, quando vogliono farmi capire il loro desiderio di avere uno stile chic, elegante, ma raffinato. Sì, citano sempre lei. Che sapeva essere femminile senza dover esibire.
L’adorano le sessantenni, che la ricordano per com’era e non solo sulla celluloide o in fotografia, e che la ricordano soprattutto per il suo sguardo dolce e malinconico, quando nei suoi ultimi anni di vita si prodigava per le cause umanitarie con una dignità ed una forza ineguagliabili.
Eppure il dolore è sempre stato un filo conduttore sua esistenza. Dall’infanzia, vissuta solo con la madre dopo l’abbandono del padre – evento che la segnò per sempre – agli anni della seconda guerra mondiale in Olanda, le difficoltà economiche, le persecuzioni dei nazisti e le deportazioni di tanti bambini cui lei dovette assistere. A proposito di quegli anni lei stessa raccontò che la sua vita di allora era simile a quella di Anna Frank: “Avevamo entrambe dieci anni allo scoppio della guerra e quindici alla sua conclusione. Ho letto il suo diario nel 1946, ed era come leggere la mia vita. Non sono più stata la stessa dopo quella lettura”.
E fu con tanta tenacia e grazie al suo talento che a partire dai primi anni ’50 iniziò la sua lenta ma incredibile un’ascesa, come ballerina e attrice di teatro e di cinema, che la portò a ricevere i premi cinematografici più ambiti e prestigiosi.
Ormai famosa, e desiderosa di crearsi quella famiglia che tanto le era mancata da bambina e da ragazza, cercò ostinatamente la maternità nonostante numerosi aborti spontanei (cui diede sollievo la nascita del suo unico figlio, Luca). Ma non riuscì fino in fondo a realizzare il suo unico e grande sogno, a causa del fallimento di due matrimoni.
Ma tutto ciò non aveva mai offuscato il suo meraviglioso sorriso, né intaccato il suo fascino. Che era sottile, altero ma generoso, non divistico: la dolcezza del viso, la figura sottile, la postura elegante data da anni di danza classica. E quell’umiltà d’animo, e la saggezza di essere riuscita a rimanere sempre sé stessa anche dopo il successo.
E’ l’immagine di una donna moderna, che ha affrontato la fame, il sacrificio e l’umiliazione, ma ha perseguito il suo sogno, ha dato tanto e non ha mai dimenticato i bambini. L’amore che provava per loro era così forte che finalmente riuscì a dargli una forma concreta, impegnandosi con l’Unicef per le cause umanitarie a partire 1988.
La forza e la dolcezza. Le determinazione e l’umiltà. La malinconia ed il sorriso. Forse è questo che ce la fa amare ancora tanto, al di là degli stereotipi e delle immagini fin troppo inflazionate.
Come ha dichiarato una decina d’anni fa in un’intervista Hubert de Givenchy, suo grande amico nonché artefice del famoso abito nero in ‘Colazione da Tiffany’, “Audrey non solo era unica, era straordinaria, bella, leale e piena di talento (…). Il suo stile così attuale, e la sua grande modernità rimarranno per sempre”.
Ed è stato proprio così.