In Svizzera la confederazione sindacale cristiano sociale Travail.Suisse ha lanciato di recente una raccolta firme per sostenere l’introduzione di un congedo di paternità di quattro settimane, questo all’indomani della bocciatura da parte del consiglio nazionale di una proposta di sole due settimane. Posizione coraggiosa, la loro, come quella di circa il 12% dei padri italiani che risponde ai 2 giorni obbligatori introdotti dalla legge di stabilità del 2016 con il congedo parentale facoltativo, 10 mesi da suddividere fra madri e padri, stipendio decurtato del 70%. Coraggiosi e grandi risparmiatori. Oppure pragmatici, come uno di loro, del quale leggevo qualche settimana fa la storia su un settimanale femminile. Sua moglie guadagna molto più di lui ed esaurita la maternità obbligatoria, la scelta del padre è stata di accompagnare per altri cinque mesi loro figlio, mantenendo un reddito familiare dignitoso. Quindi lui a casa e la moglie al lavoro. Bene così, pragmatismo e coraggio.
Continuo a evocarlo, il coraggio, perché ho il vizio di rigirare il coltello nella piaga delle mie debolezze. Prima ancora di cominciare a ragionare sulla sua sostenibilità economica, io il congedo parentale non l’ho preso per non andarmela a cercare. Proprio così. Non sono poche le aziende che hanno fortemente invisa l’assenza dei loro dipendenti e che considererebbero velleitario il congedo di un padre in vena di scaldare omogeneizzati e cambiare pannolini. Chissà, magari ne verrebbe anche intaccata la maschia leadership.
Eppure solo qualche giorno fa, un amico fraterno mi stava raccontando i suoi progetti per il 2017. A casa cinque mesi con il figlio di 2 anni, perché “voglio fare l’esperienza e perché lo devo a lui e a mia moglie”. Coraggioso il mio amico, anche a Colonia, dove non esiste il congedo di paternità, ma quello parentale sì, con 156 settimane in due e il 70% di retribuzione. Il rischio, anche per lui, anche lì, è che al ritornando al lavoro la sedia diventi più scomoda di quanto non fosse. Insomma, solo in Italia il mobbing tocca più di un milione e mezzo lavoratori ogni anno e finire a ingrossarne le fila è un niente.
Ci vuole coraggio, quindi, un coraggio che non si esaurisca nei congedi obbligatori o volontari, ma che sia a forma di donna, al ritorno dalla maternità e chissà per quanto. Un coraggio che suoni come le fughe a rotta di collo verso casa o verso l‘ultima uscita dell’asilo e che abbia la dolce fermezza dei no. “Non mi è più possibile proseguire, riprendiamo domani”, “no, non posso accompagnare la delegazione per due settimane in Cina”, “no, non posso venire in riunione, mio figlio ha la febbre, ma posso fare tutto da casa”. Questo è il coraggio che nessuna legge potrà dare a chi non ce l’ha. Il coraggio di conciliare, di lottare per la qualità del tempo e non solo per la quantità, sia nella vita privata, sia nel lavoro. Sono queste donne coraggiose che stanno cambiando il costume, che porteranno i benefici delle politiche di conciliazione a tutti. Ecco, se fra noi c’è un padre che vuole dare seriamente una mano, questo è il momento giusto. Ma davvero lo vogliamo?