Sono tante, vivono il proprio lavoro come una vera passione (tale da rinunciare, a volte, anche ai figli), eppure continuano a occuparsi di cause di minor rilevanza e a essere pagate meno dei penalisti. È il ritratto delle penaliste italiane che emerge dal libro, appena pubblicato, dell’avvocata milanese Ilaria Li Vigni “Penaliste nel Terzo millennio”.
Si tratta di un saggio che approfondisce l’evoluzione della professione di penalista nel nostro Paese, partendo da avvocate celebri come Tina Lagostena Bassi e Bianca Guidetti Serra per arrivare a quelle nel terzo millennio, a cui l’autrice ha deciso di dare voce con un questionario e con una serie di interviste a chiusura del volume.
Ad accomunarle la percezione che, nonostante la grande femminilizzazione della professione avvenuta negli anni ’90, ci sia ancora molta strada da fare.
“Il diritto penale – spiega Ilaria Li Vigni – è sempre stato una specializzazione più tipicamente maschile, tanto da renderlo uno dei settori più difficili per le professioniste che ancora oggi, con difficoltà ne raggiungono i vertici”. Una situazione che si riflette nelle parole delle avvocate intervistate dall’autrice. “Molte penaliste – racconta Li Vigni – hanno infatti dichiarato chiaramente che certi ambiti del diritto penale sono loro preclusi in quanto donne”.
Non si tratta però di una discriminazione dichiarata, ma piuttosto, come spiega l’autrice, di “una forma di discriminazione meno evidente – e tuttavia non meno dannosa – che attiene alle materie di elezione delle avvocate penaliste. Nonostante, infatti, la raggiunta parità numerica tra uomini e donne nell’accesso alla professione, rimangono ad appannaggio dei penalisti questioni relative a reati societari, tributari e finanziari”. Sono, infatti, i penalisti che continuano ad apparire nei “processi che contano”, quelli in cui l’importanza del cliente è proporzionale alla sua disponibilità economica e quindi alla parcella dell’avvocato.
La maggior parte delle penaliste, come emerge dalle interviste e dal sondaggio condotto da Li Vigni, “si occupa invece di reati contro i cosiddetti ‘soggetti deboli’ e di processi in cui sia gli imputati sia le persone offese, ciascuno per vari ordini di ragioni, sono spesso in stato di difficoltà economica. Va da sé che questa situazione, come hanno dichiarato le stesse intervistate, si traduce per le penaliste in una grande disparità salariale”.
E i dati emersi dal sondaggio condotto dalla Commissione pari opportunità dell’Unione Camere Penali Italiane parlano chiaro: il pay gap rispetto ai penalisti è di oltre il 50%.
Il 40,3% delle penaliste dichiara un reddito annuo fino a 20.000 euro, il 46,3% fra 20.000 ed 50.000 euro, mentre l’11,6% ha un reddito imponibile fra 50.000 e 100000,00 euro.
Una situazione che – come ha spiegato Ilaria Li Vigni – spesso scoraggia le penaliste e fa scattare in loro un perverso meccanismo psicologico. “È emersa chiaramente – rivela l’autrice – la tendenza di molte ad avere con il cliente un approccio quasi più ‘di cura’ che professionale. Un atteggiamento che si traduce a sua volta nella difficoltà a chiedere un equo compenso e quindi a farsi pagare. Tutto ciò finisce per minare l’autostima delle stesse penaliste impossibilitate a migliorare il proprio standard professionale”
Ma Li Vigni nel suo saggio ha voluto approfondire anche la vita privata delle penaliste. Il volume, che chiude la trilogia “Avvocate. Sviluppo e affermazione di una professione” e “Avvocate negli studi associati e Giuriste d’impresa”, punta infatti a raccontare non solo il lavoro di difensore ma anche del femminile dietro la professione.
Dalle sue interviste alle penaliste emergono ritratti di madri alle prese con i problemi di gestione dei tempi della vita professionale e vita familiare. Ma anche storie di donne che, amando talmente la propria professione, hanno scelto di dedicarvisi totalmente.
“Per alcune non avere figli è stata sicuramente una scelta determinata dalla volontà di dedicarsi completamente a una professione che vivono come la più grande fonte di soddisfazione. Questo ha una grande valenza e implica – precisa l’autrice – che si debba fare di più per avvocate e avvocati con figli, dal momento che la professione non è a misura di genitore. Penso, ad esempio, al fatto che finora non sia stato possibile ottenere rinvio di un’udienza in caso di maternità che quindi non viene ritenuta legittimo impedimento ”.
Un tema su cui, la Commissione pari opportunità dell’Unione Camere Penali Italiane, di cui Ilaria Li Vigni è componente, sta lavorando molto, avendo presentato una proposta di legge per introdurre il legittimo impedimento dell’avvocata nel processo penale nei due mesi antecedenti e nei mesi successivi al parto, come la legge prevede per le lavoratrici nella pubblica amministrazione, quale la magistratura.
“A settembre 2016, dopo varie proposte di legge presentate in precedenza e cadute nel vuoto, è stata presentata alla Camera la proposta di legge Modifica all’articolo 420 ter codice di procedura penale in materia di legittimo impedimento dell’avvocata nel periodo di maternità. La speranza mia e della Commissione, impegnata da tempo su tale tema di fondamentale importanza, è che questa proposta di legge – conclude Li Vigni – abbia finalmente il giusto iter parlamentare e arrivi a sancire, anche per le libere professioniste, il diritto alla genitorialità che la Costituzione già riconosce a tutti i lavoratori”.