Covid-19, da “tampone” a “droplet”, il nuovo lessico dell’epidemia

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Nel nuovo lessico familiare e politico al quale l’epidemia di coronavirus ci condanna c’è una parola sopra tutte che colpisce sempre per la sua somma ambiguità: “positivo”. Il vocabolario ci ricorda come l’aggettivo sia utilizzato per affermare la bontà, l’utilità, il valore di qualcosa. “Sii positivo“, esortiamo per incoraggiare qualcuno all’ottimismo. Eppure, in ambito medico e mai come in questi tempi, lo stesso aggettivo assume il suo significato di “contrapposto a negativo”, dunque infetto, colpito.

“Positivo” – si legge nel dizionario Treccani – viene ora usato per quello che vuol dire nel linguaggio medico, nel suo senso “di responso diagnostico che conferma il sospetto formulato, che integra affermativamente un giudizio diagnostico, e va quindi inteso in senso non benigno, sfavorevole cioè al soggetto esaminato“. Il risultato è straniante: ci invitiamo l’un l’altro, debitamente a distanza, a essere positivi, a guardare con fiducia al futuro, intendendo al tempo stesso augurarci di non essere positivi al tampone per il coronavirus.
“Tampone”, ecco l’altra parola chiave comparsa su tutte le bocche, nei titoli dei giornali, nelle trasmissioni Tv, persino nelle famiglie. Di tamponi – a chi farli, quanti farne, come li fanno gli altri Paesi – abbiamo discusso e continuiamo a discutere ancora.  In tempi normali è una parola delle donne, che immediatamente identifica gli assorbenti interni e tutto il corollario di vocaboli ancora tabù legati al ciclo mestruale. Ma è anche un termine di gran voga nelle famiglie con bimbi piccoli, quelle costrette a correre in ambulatorio quando compare improvvisamente un mal di gola per escludere che il pargolo sia affetto dallo streptococco beta emolitico di gruppo A, temibile batterio che, se non curato subito e bene, può degenerare in febbre reumatica. E proprio il tampone orofaringeo – un lungo cotton fioc che viene infilato in gola – oggi serve a scoprire se il coronavirus ci ha contagiato.
Contagio, febbre, quarantena sono termini ricorrenti in tutte le epidemie della storia, alle quali si accompagnano spesso parole tratte dal linguaggio bellico. Come zona rossa, espressione comparsa per la prima volta in Francia dopo la lunga e sanguinosa battaglia di Verdun e dopo la fine del primo conflitto mondiale per segnalare i territori del Nord-Est del Paese che risultavano del tutto devastati e non bonificabili. Il Governo decise allora di espropriarli, impedendone l’accesso perché potessero rinaturalizzarsi. Da allora l’individuazione delle zone rosse serve a segnalare i luoghi più colpiti da una calamità naturale o, appunto, da un’epidemia.
Non deriva invece dal linguaggio bellico ma da quello scientifico la parola inglese “droplet”, citata nei documenti ufficiali delle autorità sanitarie italiane. Significa “gocciolina” e segnala la distanza alla quale la saliva degli altri ci raggiunge trasmettendoci un virus. Nel caso del Covid19 è fissata ad almeno un metro. E adesso è obbligatorio mantenerla dappertutto: in fila alla fermata del bus, alle Poste, al supermercato, persino se facciamo una passeggiata all’aria aperta.
“Distanziamento” è l’ordine di allontamento fisico dagli altri che va rispettato, quello che da italiani ci risulta faticosissimo. Ma è bello ricordare che in linguistica significa la capacità della lingua di indicare cose distanti nello spazio o nel tempo dal luogo in cui si svolge l’interazione: la libertà dell’evento comunicativo dall’hic et nunc. La libertà che oggi ci resta: quella di scriverci, chattare, parlarci al telefono o via skype, dialogare attraverso i social, rivelarci attraverso la voce o la scrittura.
Restando distanti fisicamente ma emotivamente e “linguisticamente” vicini, possiamo riscoprire il senso autentico della parola “fiducia”, quella che la studiosa di greco antico Andrea Marcolongo, autrice del prezioso “Alla fonte delle parole” (Mondadori), scrive di preferire nella voce medievale “fidanza”: “Porta con sé, senza bisogno di troppe parole, il significato del patto suggellato tra due parti, andata e ritorno, fiducia mai scontata ma che affonda le sue radici in una reciproca promessa“.
È il tempo di sapere a chi affidarsi, a chi dare il peggio e il meglio di noi. Senza aver paura di dire che abbiamo paura. Ma ringraziando (e ricambiando con la responsabilità) chi si prende cura: della nostra salute, a partire dai medici e dagli operatori che sono in prima linea, e delle nostre fragilità. Lo scrittore americano Raymond Carver diceva: “Le parole sono tutto quello che abbiamo, perciò è meglio che siano quelle giuste”. Vale in generale, vale oggi mille volte di più.