Ha aperto gli occhi. Mio padre ha aperto gli occhi come non faceva da giorni. Che ora è? Entra un po’ di luce pallida dalle tapparelle, sbilenche come tutto quest’ospedale. Saranno le sette, o giù di lì. Ha anche aperto la bocca, ma è per la sete, non riesce più a parlare da quando la vena gli è scoppiata nella testa mentre cercava di scavalcare la rete dell’orto.
Io non c’ero, ero in Francia, e per contattarmi, mia madre aveva dovuto imparare a dire “Sciambre séntsis”, gliel’avevo scritto proprio così su un foglio, al primo che rispondeva al telefono nel corridoio dello studentato. E’ stato tramite quella cornetta senza privacy ho scoperto che mio padre è stato male, lui quella rete non avrebbe mai dovuto scavalcarla, la malattia era peggiorata, non si chiamano degenerative per niente.
Sono rientrato con un treno infinito, dai mille cambi, non ricordo chi è venuto a prendermi in stazione, con la mia ragazza era finita durante la mia assenza, erano anni, secoli, che ci prendevamo e mollavamo, e mia madre non aveva la patente. Avrò preso l’autobus, può essere, quindi altre due ore di tornanti per il paesello.
Per due settimane, l’ospedale era diventato le mie notti. Il libro di diritto civile, chissà quali romanzi, il campanello per le infermiere quando la flebo si svuotava o il catetere si riempiva, l’acqua e la garza per umettare le labbra. Mia madre mi dava il cambio verso le sette e trenta.
Sì, se non è ancora arrivata devono essere le sette passate da poco quando mio padre apre gli occhi l’ultima volta.
«Bravo» è tutto quello che dico all’uomo che una volta mi sembrava immenso, e mi faceva paura, e adesso è un mucchio di stracci buttato tra altri stracci. Ma la mia testa dice altro, dice che la mamma è sfinita, che non ce la fa più a fare quel su e giù, che l’ansia la massacra. Deciditi, papà, gli chiedo in silenzio. Se hai aperto gli occhi per tornare, torna adesso, anche se i dottori ci hanno detto che sarai un vegetale, la mamma ti prende a casa, ha bisogno di qualcuno da accudire, e io sono troppo grande, sto andando via, lo sappiamo tutti anche se facciamo finta di no. Ma se non puoi tornare, o non vuoi perché la malattia che ti ha menomato ti fa sentire così impotente che reagisci nell’unico modo che un uomo come te sa fare, con la rabbia, ecco se non puoi o non vuoi tornare, lascia libera la mamma adesso, altrimenti vi perdo entrambi.
Mio padre richiude gli occhi. È passato un secondo. Ha scelto.
Buon viaggio, dovunque tu stia andando.
***
Un secondo. Quanto dura un secondo? Così poco che per scrivere queste poche parole ne ho impiegati una decina. Però non tutti i secondi sono uguali. Alcuni hanno il potere di dilatarsi sino a segnare l’avvenire. Il secondo in cui abbiamo chiuso gli occhi per il nostro primo bacio, quello in cui sono venuti al mondo i nostri figli, quello in cui abbiamo salutato per sempre una persona cara. Questi ce li ricordiamo tutti. Ma il secondo precedente cos’è successo? Quale tumulto agitava le nostre menti e i nostri cuori? Ecco, le storie della domenica racconteranno questi “secondi prima” dei secondi eterni, quelli in cui gli occhi stavamo per chiuderli, le mani per lasciarle o prenderle. Momenti veri o immaginari, vissuti da personaggi più o meno pubblici o ignoti o anche solo da me (ogni autore è narcisista). Perché forse ce li siamo scordati, eppure non sono mai andati via. Quali sono i “secondi prima” dei secondi che hanno cambiato la vostra vita? Raccontateli a giulianopasini@gmail.com e se vorrete, diventeranno storie.