Agricoltura, il costo psicologico del lavoro nei campi è ancora troppo spesso ignorato

Quando si parla di salute mentale sul lavoro, l’attenzione va subito alle aziende. Solo in seconda battuta si pensa ai liberi professionisti, agli insegnanti, a chi è impiegato nella ristorazione oppure agli operatori sanitari. Ancora più raramente, si pensa a chi lavora nei campi. Eppure l’agricoltura resta un pilastro fondamentale dell’economia globale: nel mondo due persone su cinque operano nel settore. 

Un settore che oggi è sotto pressione per più di una ragione: costi di produzione, mercati instabili, cambiamenti climatici, crollo delle esportazioni, dazi. A ciò, si aggiunge il peso di una vita spesso trascorsa in zone rurali isolate, il lavoro per lo più stagionale, gli orari lunghi e irregolari e la fatica fisica. Tutti elementi che hanno un impatto profondo sulla salute mentale. 

I vissuti emotivi

Secondo un’indagine di Farm Safety Foundation, il 95% dei giovani agricoltori ritiene che la questione della salute mentale sia il problema nascosto più grande che affligge il settore. In questo, la crisi climatica gioca un ruolo centrale. Siccità, alluvioni e ondate di calore aumentano lo stress psicologico degli agricoltori. Una recente indagine svlta nel Regno Unito evidenzia che  il 98% degli agricoltori britannici ha dovuto affrontare eventi meteorologici estremi negli ultimi cinque anni. A causa di ciò, il 92% di loro si dichiara ansioso e il 60% depresso. 

Anche lo stress finanziario contribuisce. Sì pensi, ad esempio, alla pressione economica crescente che stanno affrontando gli agricoltori americani: i dazi su macchinari, sementi e fertilizzanti hanno raggiunto un costo aggiuntivo stimato in 33 miliardi di dollari. In particolare, i coltivatori di soia – che rappresentano la principale esportazione agricola degli USA – sono tra i più colpiti, con un calo significativo delle vendite all’estero, specialmente in Cina. 

Il mito della resilienza a tutti i costi

Vi sono dinamiche culturali che influenzano il modo in cui gli agricoltori affrontano lo stress quotidiano. È infatti comune che preferiscano affrontare da soli problemi e difficoltà, senza chiedere aiuto esterno. Questo atteggiamento rimanda a quella che si può definire l’identità del “buon agricoltore”, caratterizzata da indipendenza, capacità di risolvere da sé e resilienza. Uno studio evidenzia che questa modalità di gestione del disagio mentale è spesso la prima strategia adottata da chi lavora nei campi.
Altri strumenti di conforto adottati dagli agricoltori comprendono la fede religiosa o la spiritualità, così come la tendenza a “ridimensionare” le difficoltà, interpretandole come aspetti intrinsechi del mestiere. Tutte prassi che possono rendere complesso riconoscere le difficoltà e accedere, quando necessario, a un supporto professionale. 

La necessità di cambiare paradigma

Per uscire dal silenzio che circonda la salute mentale in agricoltura, serve un cambio di paradigma. Sia a livello individuale che comunitario, è essenziale creare spazi in cui gli agricoltori possano confrontarsi e trovare supporto qualificato.

Anche la sensibilizzazione gioca un ruolo decisivo: serve una narrazione pubblica che permetta di superare bias e pregiudizi, come succede nelle aziende e in altri luoghi di lavoro. Il cambiamento, tuttavia, non può essere solamente culturale: deve necessariamente essere anche strutturale. Servono politiche pubbliche che tutelino realmente gli agricoltori e mitighino le principali fonti di ansia e stress che caratterizzano il settore, come l’incertezza finanziaria e la crisi climatica.

Rendere la salute mentale centrale (anche) in agricoltura significa riconoscere l’importanza che questo settore ricopre. Tanto per chi ci lavora, quanto per l’intera collettività. Dopo tutto, l’agricoltura rimane la principale fonte di nutrimento per l’intero pianeta.

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