Perché le donne hanno paura di ricorrere all’AI?

Temendo l’enormità del mare, dovremmo evitare del tutto di attraversarlo? Non sarebbe meglio imparare a governare la propria barca per esplorare nuovi confini?* Negli scenari attuali, se l’IA fosse un mare sconosciuto, oggi sarebbero soprattutto le donne a restare sulla terraferma. Quando invece, al contrario, nel mondo del lavoro sarebbero quelle a beneficiare maggiormente dall’esperienza diretta della “navigazione”.

Al momento non molte sanno allineare le vele a venti favorevoli – cioè conoscono e imparano l’uso efficace delle nuove tecnologie. E sono ancora troppo poche quelle che si stanno formando per farlo nel breve periodo. Afferma Marinela Profi, global strategy lead for AI and generative AI di SAS: «Non si tratta di IA che porta via posti di lavoro. Ma di IA che crea un cambiamento di potere e può essere acceleratore di carriere (al femminile) nell’imprenditoria, nella leadership e sul posto di lavoro». Intervenendo a margine della AI Week di Milano di metà maggio, continuava, «Se il problema è la fiducia, la soluzione è l’azione. Il modo migliore per capire l’intelligenza artificiale è iniziare a usarla oggi. Se la fiducia è una parte del problema, la mancanza di educazione è l’altra».

Le ragioni oltre i dati

Ce lo dicono svariate analisi: nel mondo del lavoro, le donne adottano strumenti di intelligenza artificiale a ritmi inferiori rispetto ai colleghi. Quanto meno? Secondo un’indagine del 2024 della Federal Reserve Bank di New York, se la metà degli uomini aveva usato strumenti di IA generativi nei 12 mesi precedenti, lo aveva fatto solo un terzo delle professioniste.

In generale, secondo gli autori di un recente documento di lavoro della Harvard Business School, la stima del perpetrarsi di ritmi di utilizzo dell’IA da parte delle donne più bassi rispetto ai colleghi, mostra un gap di genere medio del 25%. Guardando agli utenti di ChatGPT tra novembre 2022 e maggio 2024, l’analisi Harvard evidenzia che fra gli utilizzatori da sito web le donne sono il 42%. Percentuale che scende al 27% se si considerano i dati relativi alla app via mobile. Questo, chiosano gli studiosi, «Nonostante il fatto che i benefici dell’intelligenza artificiale sembrano applicarsi in misura uguale» a entrambe i generi. «Anche quando sono state date le stesse opportunità di utilizzo  di ChatGPT, le donne erano meno propense» a farne uso.

Con la velocità di adozione delle tecnologie e la rapidità con cui le imprese si devono adattare per “capitalizzare” le potenzialità degli strumenti, non includere una parte della forza lavoro significa perdere opportunità. Senza contare che non preparare le risorse in modo adeguato significa lasciare indietro generazioni di lavoratrici. Specialmente poi se non si tiene conto dei limiti di genere che prevengono l’approccio e l’utilizzo da parte delle più giovani e il re-skilling delle professioniste già occupate. Una possibile conseguenza sarà, tra l’altro, l’acuirsi della già profonda crisi nel trovare i profili adatti da inserire in organico.

Ma cosa limita le donne nello sperimentare le potenzialità dell’IA? Il freno più grande, suggeriscono le analisi, sarebbe rappresentato dalla paura di utilizzo. Non solo e non tanto dello strumento in sé, soprattutto quando e se poco conosciuto. A frenare le donne nel ricorso all’AI ci sarebbe piuttosto la tendenza delle lavoratrici a chiedersi quanto “etico” sia introdurre la tecnologia le loro lavoro. A questa attitudine si aggiunge inoltre il timore delle professioniste di essere giudicate duramente, nel caso la sfruttassero come risorsa.

Il gender gap oltre le attitudini personali

Lo studio della Harvard Business School specifica come, anche considerate le stesse condizioni di accesso, la differenza di genere nell’utilizzo degli strumenti non si riduce. E le donne restano meno propense a interagire con l’IA anche a parità di offerta di formazione. In merito infatti, spiegava il professor Rembrand Koning, uno dei firmatari della ricerca, le lavoratrici «subiscono maggiori penalità se vengono giudicate come non esperte in diversi campi. Potrebbero temere che qualcuno pensi che, se anche hanno dato la risposta giusta, hanno “barato” usando ChatGPT».

Per quanto molto diffuso, non è solo questo freno “psicologico” però a trattenere le donne dal cimentarsi con le tecnologie e, conseguentemente, dell’acuirsi del gap di utilizzo. Gli studiosi di Harvard hanno individuano altre aree critiche che influenzano l’uso sproporzionato tra generi. Tendenzialmente esiste già uno svantaggio di base a inizio carriera. Inoltre, rispetto agli uomini, le donne sono più frequentemente impiegate in mansioni meno penetrate dalle tecnologie. Rischiano maggiormente, così, di restare in indietro nella “competizione” professionale. All’opposto, sono particolarmente numerose quelle che svolgono lavori minacciate dall’automazione. E risultano meno introdotte in network professionali in cui è alta la diffusione di strumenti più avanzati.

Al di là di questi aspetti di conoscenza, opportunità professionali e di status, inoltre, non possiamo dimenticare che i sistemi IA sono stati fino ad ora “istruiti” su dati distorti, stereotipati. Ecco allora che la differenza di genere dei sistemi stessi si autoalimenta.

Imparare a navigare

Tornando alla metafora di apertura, per essere in grado di affrontare il mare sconosciuto è importante imparare a conoscere la nave su cui si naviga. Farlo, aiuta a sostituire la paura con la fiducia, anche già solo con la curiosità di poterci provare.

Scriveva Virginia Padovese, Vice President Partnership per l’Europa di NewsGuard – estensione per browser di verifica dell’affidabilità di una notizia – intervenendo a margine dell’AI Week: «se vogliamo che l’IA sia davvero al servizio di tutti, dobbiamo ricercare e valorizzare la diversità e l’inclusione sia nello sviluppo sia nella fruizione. Parlo di inclusione e diversità di chi scrive i codici, di chi lavora alle strategie di sviluppo, alle politiche aziendali, alle normative che riguardano il settore» come anche «di chi produce e riceve formazione sull’uso dello strumento».

I pregiudizi si trovano nei dati, nelle strutture con cui vengono costruite le tecnologie, nella divisione dei lavori. Allora servono una serie di interventi su diversa scala e il coinvolgimento di diversi attori. É chiave, per esempio, che nello sviluppo, oltre al contrasto dei bias dei dati si tengano conto delle diverse esperienze umane. Che si coinvolga intenzionalmente chi ha la possibilità di impostare programmi di aggiornamento, di indirizzare l’evoluzione delle pratiche e di influenzare la cultura aziendale. E fondamentale poi, nella la costruzione di team diversificati, anche la promozione di una maggiore inclusione a livello decisionale.

Confermava Koning presentando lo studio di Harvard: «parlando con le società che usano l’IA generativo, i luoghi in cui le lacune sembrano inferiori, sono quelli dove i leader affermano: “vogliamo che tutti adottino questi strumenti”». Dove si applica questo principio, continua, si fanno «grandi passi avanti verso la riduzione del divario di adozione». Al contrario, come era successo per altre rivoluzione tecnologiche del passato, gli studi mostrano che senza interventi intenzionali che sottolineano il gap di genere, le nuove tecnologie di intelligenza artificiale perpetueranno le diseguaglianze attuali. O addirittura le amplieranno ancora di più.


* Parafrasando Louisa May Alcott, che nel suo “Piccole donne” scriveva: «I am not afraid of storms, for I am learning how to sail my ship». [“Non ho paura delle tempeste perché sto imparando a governare la mia barca”].

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