Hate speech, donne ed ebrei i più colpiti. Cosa fare contro l’odio on line?

Le parole contano, hanno un loro peso specifico, danno forma al pensiero e contribuiscono a creare altro pensiero, influenzando la cultura e quindi le azioni. Eppure, le parole oggi sono ancora troppo spesso parole di odio, amplificate dal megafono dei social. «Disarmare le parole», non usare «parole aggressive», dire «no alla guerra delle parole» è quello che ha chiesto anche Papa Leone XXIV nel suo primo incontro con i giornalisti, inserendosi nel solco di Papa Francesco. Le parole possono diventare armi, pietre, possono fare, come ha scritto la quattordicenne Carolina Picchio prima di togliersi la vita esasperata dalle offese sui social, «più male delle botte».

Nel mondo on line, secondo l’ultimo rapporto Vox Diritti, con le parole non stiamo messi affatto bene. Le donne sono assieme agli ebrei le più colpite. Il caso degli attacchi ripetuti a Liliana Segre, senatrice donna ed ebrea, sono esemplificativi. Si va, nel caso delle parole d’odio verso le donne, alcune volte oltre lo stesso contesto patriarcale, trattandosi in alcuni casi di “odio purissimo”, misoginia allo stato puro. E in questo contesto occorre guardare con attenzione ai possibili effetti delle nuove tecnologie, con algoritmi che favoriscono  la polarizzazione, lo scontro.

Sul totale delle persone colpite da hate speech, secondo il rapporto che ha analizzato il periodo gennaio-novembre del 2024, le donne sono la metà. Compie un prevedibile, legato alla guerra, balzo in avanti l’odio antisemita, che passa dal 6,59% di due anni fa al 27% attuale. E aumentano anche xenofobia e islamofobia, a ricordarci che la società in cui viviamo è attraversata da forti pulsioni di rigetto del cosiddetto “straniero”, portatore di storia, cultura, usanze diverse dalle nostre e considerate perciò minacciose. Di fronte a questo scenario, oltre ad agire con gli strumenti che ci offre uno Stato di diritto, occorre lavorare, da un lato, sulla formazione e sulla prevenzione; dall’altro occorre collaborare con chi produce gli algoritmi, per limitare i rischi.

I picchi di odio

Al suo ottavo anno di rilevazione, inoltre, la mappatura di Vox Diritti consente l’estrazione e la geolocalizzazione dei tweet che contengono parole considerate sensibili e identifica le zone dove l’intolleranza è maggiormente diffusa  secondo 6 categorie: misoginia, antisemitismo, islamofobia, xenofobia, abilismo, omotransfobia.

Significativi i momenti in cui si sono registrati i picchi di odio.  Contro le donne, in occasione dell’approvazione della Direttiva europea contro la violenza sulle donne. E, come negli anni scorsi, si nota la correlazione con gli atti di femminicidio.  Contro gli ebrei, in coda a manifestazioni pro Pal, alla pubblicazione del Rapporto sull’antisemitismo dell’Anti Defamation League e il 25 aprile.  Contro i migranti, nella Giornata per l’eliminazione della discriminazione razziale e dopo aggressioni razziste.- Contro i musulmani, in seguito alla morte a Milano di Ramy Elgaml, inseguito dai carabinieri, e alle manifestazioni di protesta che si sono succedute.  Contro le persone con disabilità, in seguito a episodi di intolleranza verso di loro.  Contro le persone omosessuali, nelle giornate del Pride e in seguito ad aggressioni omofobe.

Il clima favorevole delle parole d’odio per i crimini d’odio

Non si può parlare di un collegamento diretto tra le parole d’odio e i crimini d’odio (che secondo la definizione Ocse sono “i fatti penalmente rilevanti motivati da pregiudizi e intolleranza”) ma certamente il rapporto Vox Diritti porta alla luce, spiega Silvia Brena, giornalista e co-fondatrice assieme a Marilisa D’Amico dell’Osservatorio italiano sui diritti, che c’è una corrispondenza, si verifica attraverso le parole la creazione di un terreno fertile, di una cultura propensa alla violenza. Le parole d’odio, spiega Brena, hanno un «legame strettissimo con i crimini d’odio. I picchi odio, che avvengono in concomitanza con alcuni reati come i femminicidi, lo dimostrano.  Ciò non vuol dire che le parole d’odio siano la base di assenso dei femminicidi, ma si crea un clima favorevole, non c’è dubbio».

Il ritorno al body shaming

«Bruttina ma già sai », scriveva un hater, dopo averla incontrata all’Ikea, ad Aurora Ramazzotti, scagliandosi anche contro marito e figlio di lei. Matura e ironica la reazione della figlia di Michelle Hunzicker ed Eros Ramazzotti che evidentemente attira invidie non solo come donna ma come figlia di vip. «A me capita spesso di immaginare le persone cattive che popolano i social come delle creature mitologiche tipo dei fauni, dei goblin, tutte ricurve, rannicchiate dietro il loro schermo al buio a vomitare frustrazione. Invece vanno all’Ikea. Sono tra noi, amici». Il body shaming peraltro, come emerge dal rapporto di Vox Diritti è tornato di moda. «L’odio contro donne viene caratterizzato- sottolinea Brena – da una grande focalizzazione sul corpo, anche da parte di altre donne. Nel corso della pandemia c’era stato uno spostamento, le donne erano odiate soprattutto per il loro lavoro, i loro successi professionali. Oggi di nuovo il corpo delle donne viene preso molto di mira».  Inoltre, dalle indagini operate attraverso l’intelligenza artificiale è emerso che lo stereotipo classico patriarcale «ha una minore incidenza, mentre c’è un odio così sottile da non aver bisogno della sovrastruttura culturale tradizionale: un odio purissimo».

Un altro elemento interessante per quanto riguarda la misoginia è intersezionalità, ovvero l’attacco con parole d’odio contro le donne non solo in quanto tali ma anche perché appartengono a un’altra categoria: la xenofobia quando la donna è straniera, immigrata, la seconda l’antisemitismo come successo a Liliana Segre; l’omotransfobia quando la donna è ad esempio lesbica.

La polarizzazione favorita dagli algoritmi, cercare collaborazione su Ai

L’indagine di Vox Diritti si basa sui tweet su X, l’ex Twitter. «Inevitabilmente – spiega Brena – moltissimi discorsi d’odio arrivano da chatbot. Inoltre, un’altra caratteristica è la polarizzazione favorita dagli algoritmi. I contenuti polarizzati al negativo performano meglio. La reazione di like o dislike a fronte del contenuto negativo è di qualche millesimo di secondo inferiore rispetto al contenuto positivo».

«Il problema – aggiunge Brena – è molto serio, sempre di più dobbiamo cercare collaborazione con chi produce intelligenza artificiale. Bisogna usare i mezzi che abbiamo in Europa con il Digital Servic Act  e l’Ai Act, e continuare a lavorare su prevenzione ed educazione, a partire dalle scuole. Siamo arrivati a un punto in cui il linguaggio è un elemento strutturale di posizionamento e condizionamento profondo delle nostre azioni, soprattutto per i ragazzi e le ragazze».

Gli strumenti giuridici

Secondo Marilisa D’Amico, professoressa ordinaria di diritto all’Università degli Studi di Milano, è «molto difficile individuare strumenti che possano davvero avere efficacia contro il discorso d’odio, ma occorre ugualmente lavorare per capire come prevenire. La piramide dell’odio sostanzialmente teorizzata anche dalla Commissione Jo Cox, va dagli stereotipi alle discriminazioni all’ hate speech fino ai crimini di odio, arrivarci è conseguenza di questa escalation di intolleranza. Emerge in maniera molto chiara nel caso dei femminicidi. Dal linguaggio d’odio si arriva ai crimini di odio».

In presenza di un crimine, aggiunge, «si applica il diritto penale. La senatrice Liliana Segre, vittima di una campagna d’odio, ad esempio, ha presentato una denuncia penale in maniera ampia e stractegica, difendendosi contro 200-300 odiatori ».  In generale, secondo Marilisa D’Amico gli strumenti a livello legislativo, con la fattispecie reato di diffamazione, la legge Mancino contro il razzismo, solo per fare un esempio, ci sono, ma occorre poi formare avvocati e magistrati chiamati ad applicare queste norme. «Abbiamo strumenti giuridici che agiscono dopo che crimine colpito, il linguaggio d’odio crea già effetto negativo. È già violenza in sé. È violenza che va punita per prevenire altra violenza. Ci vuole, dunque, una grossa campagna di formazione dei giuristi avvocati magistrati», utilizzando a tutto campo sia «strumenti penalistici sia strumenti di prevenzione».

La proposta di legge sulla diffamazione verso un gruppo 

Sul piano giuridico, Antonio Nicita, senatore Pd, ha da poco presentato un disegno di legge contro l’hate speech on line che aggiungerebbe uno strumento in più per combattere l’odio che corre sul web. La proposta introduce, nel caso di espressioni d’odio contro determinate categorie (come ad esempio le donne o gli ebrei) l’illecito civile della diffamazione verso un gruppo. In questo caso non si tratterebbe, dunque, di una risposta sul piano penale, come previsto nel caso della fattispecie di diffamazione già esistente, ma sul piano civile: gli haters che agiscono contro determinate categorie (e non contro i singoli) sarebbero puniti «con un sanzione civile, ovvero una multa». Una diffamazione verso un gruppo, scrive Nicita nel suo recente libro ‘Nell’età dell’odio’, che «resti nell’ambito dell’illecito civile e del risarcimento del danno, lasciando inalterata la legislazione sui reati da istigazione all’odio».

 

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