I numeri concordano: in molti Paesi del mondo le popolazioni crescono solo grazie all’arrivo di cittadini nati altrove. In particolare, secondo le analisi condotte dal Pew Research Center, in 14 nazioni o territori, dal 2000 al 2020 l’immigrazione giustifica il 100% della crescita degli abitanti.
Stando alle rilevazioni del centro di ricerca statunitense, inoltre, nelle 17 nazioni che da inizio secolo hanno invece conosciuto un calo demografico, l’ingresso di abitanti provenienti da fuori i confini, ha permesso una diminuzione più contenuta rispetto ai numeri che la sola bilancia tra nati e morti “interni” avrebbe fatto registrare.
Questa tendenza demografica, per quanto con le debite differenze, è evidente un po’ ovunque. E in Europa, in particolare, è confermata dai numeri pubblicati a inizio luglio da Eurostat. Seppure lo scorso anno nel continente si siano registrate più morti che nascite, per il secondo anno consecutivo la popolazione continentale è aumentata di oltre 1,5 milioni di individui proprio grazie a quanti si sono trasferiti nell’Unione. Dei 27, è stata la Spagna a registrare la crescita maggiore (oltre 525 mila persone) seguita da Germania (+330 mila) e Francia (+229 mila).
Nell’arco di quei 12 mesi, la tendenza è stata opposta solo in sette stati membri. A “rimpicciolirsi” maggiormente è stata la Polonia che ha perso 132.800 abitanti. Segue la Grecia (con una diminuzione di -16.800 persone) e l’Ungheria (-15.100). Di questi Paesi con numeri in declino fa parte anche l’Italia: nel 2023 ha visto ridursi il numero dei suoi residenti di circa 8 mila unità passando da 58,997 a 58,989 milioni di abitanti.
(Im)Migrazioni e lavoro
Nei primi due decenni del XXI secolo, a livello mondiale la popolazione è esplosa, aumentando di 1,7 miliardi di persone. Numeri di crescita delle società su cui fare proiezioni rimane un lavoro complesso. Risulta, poi, altrettanto arduo, data la natura voltile e imprevedibile del fenomeno, cercare di prevedere le fluttuazioni dovute alle migrazioni. Lo abbiamo visto chiaramente nelle conseguenze di crescita/decrescita demografica verificatasi già nei primissimi mesi dalla diffusione del Covid-19. O data dai flussi di migranti scappati dai conflitti degli ultimi anni.
Incertezze geopolitiche a cui si aggiungono le sfide climatiche e che rendono le riflessioni sugli sviluppi demografici e la loro incidenza sui numeri di un Paese meno prevedibili rispetto all’impatto che hanno i tassi di natalità e fertilità nazionali. Nonostante questo però, come ci dicono chiaramente i dati, gli immigrati in un Paese impattano e diventano fattori anche molto importanti nella gestione delle politiche degli stati. E elementi determinanti in un’ottica di occupazione ed evoluzione del mondo del lavoro.
L’afflusso di nuovi abitanti in uno Stato è un tema da sempre spinoso. Di recente, nella campagna per le elezioni presidenziali statunitensi, è tornato a essere usato da alcuni in modo allarmare per influenzare gli elettori. Il messaggio veicolato, per esempio, è che l’ingresso inarrestabile di immigrati sarebbe la causa dei picchi di crimine nelle città e alimenterebbe il rischio della perdita dei posti di lavoro per gli americani.
Commentava Paul Krugman, premio Nobel per l’Economia nel 2008 e professore di Economia alla City University di New York, sulle pagine del New York Times: “Molta della crescita dell’occupazione recente ha interessato gli immigrati. Ma questo aumento ha (effettivamente) penalizzato i “nativi”? No. Come lo sappiamo? […] Se gli immigrati stessero rubando i nostri posti di lavoro, ci si aspetterebbe di vedere una crescita verticale del numero dei disoccupati “autoctoni”. (Cosa che invece) non è successa. Il tasso di disoccupazione tra chi è nato (negli Stati Uniti) è vicino ai minimi storici”.
Domanda e offerta
Guardare alla situazione del mondo del lavoro oggi permette di completare il quadro dell’evoluzione delle popolazioni di questi anni. Basti pensare a quanto e come in parte del mondo gli abitanti invecchiano, nascono pochi bambini e si assottiglia il numero di persone in età lavorativa in grado di occupare le posizioni aperte.
Chiarisce Kruger nel suo pezzo riflettendo sulla realtà statunitense: “La stagnazione dell’occupazione dei lavoratori nati (qui) non è un problema di domanda, nel quale le persone non lavorano perché non trovano un posto. È un problema di offerta, nel quale le persone non lavorano perché hanno raggiunto l’età della pensione. Il grande aumento dell’occupazione è (dovuto) agli immigrati in età lavorativa arrivati in America. Se non li avessimo avuti, non avremmo (questi) lavori”.
Riflessione questa dell’economista confermata a inizio 2024 dai numeri del Bureau of Labor Statistics (BLS, l’unità del Dipartimento del lavoro statunitense) che notava come, dopo la pausa dovuta al Covid-19, il ritorno degli immigrati e la normalizzazione dei lavoratori entro i confini nazionali, hanno rilanciato la crescita dell’occupazione. E aiutato a districare alcuni nodi legati alle difficoltà delle catene di approvvigionamento, oltre a coprire molti dei, ancora tantissimi, posti vacanti.
Per avere un’idea delle percentuali, secondo i dati del BLS, nel 2023 gli immigrati occupati rappresentavano il 18,6% di tutti i lavoratori statunitensi (erano il 18,1% l’anno precedente). Il 77,5% degli stranieri avevano un’occupazione contro il 66,1% di coloro nati entro i confini. Quota ribaltata guardando alle madri di figli e figlie sotto i 18 anni. Lo scorso anno avevano un’occupazione il 63,3% delle “straniere” contro il 77,1% di quelle nate negli Stati Uniti.
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