Suicidi, mancanza di personale, sovraffollamento, violenze, perdita di ogni visione sul futuro, sulla realtà, sulla vita. In Italia la situazione delle carceri è al collasso e luoghi che dovrebbero avere come obiettivo la rieducazione del condannato (articolo 27 della Costituzione) diventano luoghi senza futuro. Al momento sono oltre 60 i suicidi accertati da inizio anno tra i detenuti, l’indice di sovraffollamento nazionale è al 130%, con punte oltre il 230% e secondo il sindacato Uilpa della Polizia penitenziaria, i detenuti in più rispetto ai posti disponibili sono 14.500 e gli agenti mancanti circa 18 mila. Una ricerca del Cnel, il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, mostra che sei detenuti su dieci sono già stati in carcere almeno una volta. Ma sempre il Cnel stima che il dato della recidiva può calare fino al 2% per i detenuti che hanno avuto la possibilità di un inserimento professionale. E così, anche nelle sovraffollate carceri italiane, esistono strade per uscire dal tunnel. Nel nostro viaggio a Opera, nelle visite superando il cancello d’ingresso, impareremo che i detenuti possono diventare sarti, poeti, musicisti, giornalisti, panettieri, liutai. Possono laurearsi. Possono essere uomini che guardano al futuro.
Il 41 bis
Il carcere di Opera si trova fuori Milano, in un posto lontano dal centro e dalle vie della città e si estende su una superficie di 250mila metri quadrati. Fuori c’è un grosso parcheggio sempre affollato, con un discreto via vai di persone. A entrare e uscire chi lavora nell’istituto, i famigliari dei detenuti, i volontari o semplici visitatori. Opera ospita 1400 detenuti, la maggior parte appartiene alla criminalità organizzata e la media di permanenza è 15 anni. Nell’istituto penitenziario vengono applicati tutti i regimi e i circuiti carcerari, compreso il 41 bis, il regime di isolamento destinato agli appartenenti alla criminalità organizzata. Nella prima zona che si incontra quando si entra, dopo aver lasciato all’ingresso cellulare pc e ogni altro tipo di dispositivo – ci sono il palazzo della direzione, gli uffici, la caserma e gli alloggi. Attraversando il muro di cinta, una porta carraia dà l’accesso alla zona detentiva.
I barchini di Lampedusa
La prima immagine che si presenta davanti coglie di sorpresa: nel grosso cortile con il prato, gli alberi, i cespugli, adagiato sull’erba c’è un barchino di legno colorato, bianco rosso e azzurro. Dietro ce n’è un altro, anche se in realtà si vedono solo le travi in legno. Sono i barchini con cui i migranti arrivano a Lampedusa, sono stati portati qui a Opera, un centinaio in tutto. Le barche vengono smontate, il legno selezionato e nel laboratorio di liuteria e falegnameria trasformato in strumenti musicali. “In due anni e mezzo sono stati realizzati 15 strumenti: oltre ai violini, tre violoncelli, un contrabbasso, quattro viole”, ci spiega il maestro liutaio Enrico Allorto, che costruisce gli strumenti con i detenuti. Strumenti arrivati a febbraio anche sul palco del Teatro alla Scala di Milano nella serata intitolata “L’Orchestra del mare”, benedetti da Papa Francesco e suonati da Sting. Si chiama progetto Metamorfosi ed è nato su iniziativa della fondazione Casa dello Spirito e delle Arti di Arnoldo Mosca Mondadori e Marisa Baldoni: trasforma le barche in strumenti e i detenuti in falegnami.
A Opera il reato resta fuori
“Come i migranti salgono sui barchini con l’idea e la speranza di aver un futuro migliore, così noi accogliamo le persone che ci vengono consegnate dalla giustizia, cercando di far vedere, in fondo al pozzo dove sono precipitati, non il buio ma la luna, l’occasione per cambiare vita”. Questo è il senso del progetto Metamorfosi secondo il direttore dell’istituto penitenziario, Silvio Di Gregorio. “A Opera il reato si ferma fuori dal muro di cinta, chi entra è la persona. Il reato è quello che viene consacrato nel procedimento penale ma poi inizia un’altra storia, nella quale l’uomo deve ricostruire se stesso”, aggiunge Di Gregorio. E qui, davanti ai barchini dei migranti, nell’area chiamata Piazza del silenzio, l’attenzione viene portata sull’uomo, non sul reato che ha compiuto. L’uomo che ti guarda e ti dice: “Quando lavoro mi sento libero. Qui sei fermo, se non prendi il buono che c’è, cosa fai? Voglio avere un futuro per accompagnare un giorno i miei nipoti a scuola”, le parole degli stessi detenuti.
La galleria delle opportunità
Dallo spazio aperto, dove si trova anche l’area verde per gli incontri con le famiglie e i giochi per i bambini, si passa a un altro edificio. Entriamo in quella che viene definita la galleria delle opportunità, un lungo corridoio dove sono appesi i cartelloni delle varie proposte – più di 100 – tra attività e laboratori, affidati tutti a volontari e a cui può partecipare chi entra a Opera per scontare una pena: il carcere è, infatti, l’opportunità per chi entra di cambiare vita, grazie a una serie di percorsi e progetti. Una porta e un altro corridoio ci conducono in una stanza. Dentro ci sono circa 20 persone, sono sedute intorno a un tavolo, davanti ai pc. Stanno costruendo il giornale “Cronisti in Opera”: 32 pagine tutte a colori, uno sguardo sul mondo che da qui sembra così lontano.
Il laboratorio Leggere Libera – Mente
Siamo nel laboratorio Leggere Libera – Mente, “un punto di incontro con il mondo esterno, un’opportunità di crescita”, ci racconta un detenuto. “Per me il momento più bello è quando il giornale ci viene consegnato materialmente perché è il frutto del nostro lavoro, è la cosa che mi dà più soddisfazione” spiega un altro. Nella realizzazione del giornale, a ognuno viene assegnato un tema, c’è chi segue la politica, chi la cronaca e così via. A gestire il laboratorio sono due volontari, due ex giornalisti del gruppo Sole 24 Ore: Stefano Natoli, direttore responsabile del giornale e Giuliana Licini, oltre a Paolo Romagnoli, che si occupa della parte informatica. Nel vociare del laboratorio si avvicina a noi un altro detenuto. Ci racconta che, oltre al giornalista, fa il sarto per il teatro e scrive poesie. “Qui abbiamo tanto tempo, se non lo sfruttiamo cosa facciamo? Io da tre anni vengo in questo laboratorio, siamo una famiglia, mi trovo benissimo. Qui stiamo bene”. Stare bene: una frase che sicuramente stride con il luogo in cui ci troviamo, fatto di celle, corridoi e porte chiuse a chiave. Ma stare bene per i detenuti significa occupare il tempo, avere degli interessi, avere una prospettiva. Non “stare su a fare niente”. Su è il luogo dove si trovano le celle.
I corsi universitari
Tra i detenuti di lungo periodo ce n’è uno, il cui racconto mi ha colpito molto. E’ iscritto all’università, alla facoltà scienze dei beni culturali e si sta per laureare. Al momento a Opera sono 100 i detenuti iscritti all’università e tra poco nascerà un vero e proprio polo universitario, sede distaccata dell’Università statale di Milano. “Frequentare l’università significa realizzare un sogno che avevo da ragazzo”, spiega il detenuto, da molti anni in carcere e ancora tanti anni da scontare. “Sono originario del centro storico di Napoli, quartiere Forcella, l’Università Federico II è lì a un passo. Ma io non ho avuto tempo per studiare. Sono cresciuto senza un papà, da bambino non ho giocato, ho sempre lavorato e ho fatto questa fine, sono passato dalle carceri minorili e da tutti i regimi carcerari possibili. Ho 5 figli, tutti laureati, 10 nipoti e 2 pronipoti. Sono mancato ai miei figli e per questo non li faccio venire qui ai colloqui, voglio farli stare vicino alle loro famiglie, devono stare uniti. A casa ho una moglie che ha salvato tutto. Oltre all’università, frequento anche un corso da Oss, operatore socio sanitario. Sto facendo tutte queste specializzazioni in modo che un giorno, fuori da qui, potrò portare nipoti e pronipoti a scuola, visto che finora non l’ho mai fatto. Questo sarà il mio riscatto”.
Il lavoro per aziende esterne
Attraverso un altro corridoio con finestre colorate e murales dipinti alle pareti, arriviamo alla zona lavorazioni. Per chi è in carcere il lavoro per conto di aziende esterne è fondamentale per avere un ponte col mondo del lavoro fuori, per proiettarsi verso il futuro, verso giorni e ore di libertà. A ricordarci dove ci troviamo, come sempre, le porte chiuse a chiave. Ad aprirci sono gli agenti della polizia penitenziaria. Alziamo lo sguardo, davanti a noi c’è un gruppo di detenuti, chiacchierano, bevono il caffè: è l’area mensa. Sopra la foto di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Nella prima stanza in cui entriamo ci sono uomini che assemblano aspiratori e cappe ventilatori. Poi ci sono altre stanze, tra cui l’aula di formazione per il corso da oss. Entriamo nel Laboratorio Sky, dove i detenuti lavorano otto ore al giorno, divisi in due turni e per accedervi c’è una selezione. “Questa per noi è una grande opportunità. Opera è un istituto di massima sicurezza, stiamo espiando una pena lunga, il lavoro serve non solo per occupare il tempo ma anche per avere un obiettivo per il futuro. Poichè quando un detenuto esce dal carcere, se non sa cosa fare e non ha un lavoro, rischia di cadere nella recidiva”, sottolinea la persona che incontriamo nel laboratorio.
Il pastificio
Nella zona lavorazioni si trova anche il laboratorio di liuteria e falegnameria. Sulla porta d’ingresso la scritta Casa dello Spirito e dei mestieri. Dentro musica, colori, note musicali, attrezzi alle pareti. Diamo un’occhiata agli altri laboratori poi usciamo. Oltre alla scuola edile aperta a maggio, fuori c’è il pastificio. La porta si apre ed entriamo. Ci sono i vassoi di metallo impilati con sopra l’impasto. All’interno, al momento, c’è solo un detenuto. “Facciamo pizze, pane, focacce, torte per le scuole, per gli asili e per i detenuti che un giorno alla settimana possono ordinare cibo da portare ai familiari durante i colloqui. Lavoro nel pastificio da nove anni. Qui mi sento più libero, mi sento bene, sono contento che i prodotti che creo piacciano ai mei figli. Mi dicono: papà che buono, l’hai fatta tu? Li vedo una o due volte al mese, studiano, vengono il sabato o la domenica”. “Noi investiamo moltissimo nella formazione, che consente ai detenuti di imparare un mestiere spendibile, un domani, fuori da qui. L’obiettivo è sempre quello di reinserirli nel mondo reale”, spiega Silvana Resta, responsabile dell’area educativa.
Il ranch delle libertà
E’ ora di salutare ma il direttore e gli agenti ci tengono a farci visitare ancora un’area del carcere. Camminiamo un po’. Arriviamo davanti a quella che una volta era un’area dismessa e che detenuti e agenti hanno sistemato durante il periodo Covid, quando il tempo da impiegare era molto. Apriamo un cancello, entriamo. Facciamo una scoperta inaspettata. Davanti a noi troviamo un vero e proprio ranch. Un maneggio, aperto al pubblico, dove si fanno corsi di ippoterapia per bambini disabili. Gli animali in parte arrivano da sequestri: ci sono 12 cavalli, un cinghiale, un pavone. Tutto è a carico dell’associazione Giacche Verdi Lombardia Onlus. Lo hanno chiamato Freedom ranch, il ranch della libertà.
Un messaggio di speranza
A Opera sulla parete del muro di cinta verranno disegnati dei murales: a realizzarli saranno gli stessi detenuti, che dovranno ideare e poi rappresentare un progetto di vita futuro: servirà a riscoprire il loro posto nella società. Un messaggio di speranza affinchè chi esce non torni più, proprio grazie al lavoro fatto tra queste mura. Un lavoro per lo più sconosciuto a chi sta fuori, a chi non ha idea di cosa accada qui dentro. “Posso dire che la gran parte di chi torna tra le mura di Opera è da ricercare tra quelli che non hanno sviluppato progetti all’esterno o comunque di raccordo con l’esterno. Quando le persone invece vengono accompagnate all’uscita già dall’interno, attraverso attività lavorative, corsi professionali e universitari, a tornare sono veramente pochi”, spiega il direttore. Certo le persone devono essere accompagnate. E non solo nel carcere di Opera. Bisogna partire dalle carceri minorili, dove i ragazzi devono essere guidati. Non abbandonati a loro stessi. Ma questa è un’altra storia.
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