È stata definita la prima conquista della lunga battaglia per conciliare lo sport con la maternità e la genitorialità. Eppure si tratta “solo” di uno spazio nursery alle Olimpiadi di Parigi in corso. È la prima volta dopo 33 anni dall’inizio dei giochi olimpici moderni, nell’edizione 2024 che è anche la prima ad aver raggiunto la parità numerica tra atlete e atleti: 5250 le une e 5250 gli altri: una novità così semplice e rivoluzionaria allo stesso tempo all’interno del villaggio olimpico.
Se si è resa necessaria, però, è anche perché sempre più atlete arrivano ai Giochi iridati dopo la maternità. Così la nuova struttura consente finalmente alle mamme e ai papà atleti di avere uno spazio, vicino ai luoghi delle competizioni, per poter stare con i propri figli. Basta quindi alle mamme-atlete costrette ad allattare ai bordi delle piste di atletica e ai padri isolati dalle famiglie.
Parlare delle atlete che, dopo una maternità, sono tornate in pista è necessario in un Paese come l’Italia, che conta un’occupazione femminile poco sopra il 50% e soprattutto un abbandono del mondo del lavoro da parte delle neomamme molto alto (attorno al 25%, vale a dire una su quattro). Durante le Olimpiadi le storie dei campioni diventano modelli, emblemi, metafore della vita fuori dallo sport. E raccontare le atlete-mamme contribuisce a cambaire la narrazione della maternità.
La portabandiera italiana esempio di mamma atleta
L’Italia ha una portabandiera che non solo rappresenta il nostro Paese, ma anche questa nuova concezione più complessa e completa degli atleti, che include anche l’essere genitori. Arianna Errigo, diventata mamma di due gemelli a marzo 2023, parlando proprio dello spazio nursery, ha dichiarato di aver già «prenotato alcuni dei servizi previsti, ci sono slot di un’ora e si possono chiedere in solitaria o condivise. Può entrare un accompagnatore, ci sono giochi, cambio pannolini, l’area per allattare, insomma quelle comodità che sono difficili da reperire anche alle Olimpiadi. Ho visto che i servizi sono andati alla grande, molti spazi erano già prenotati».
Ma il team italiano conta altre mamme atlete come la campionessa di scherma Mara Navarria, mamma di Samuele, che scoprì di essere incinta proprio durante i Giochi Olimpici di Londra 2012 e che ha ottenuto i risultati migliori dopo la nascita di suo figlio. O ancora la marciatrice Eleonora Giorgi e la campionessa di triathlon Alice Betto i cui figli, Leone ed Ettore, sono nati entrambi il 24 novembre 2022. Sono diventate mamme sempre nel 2022 anche la judoka Kim Polling e la campionessa di pentathlon Alice Sotero che ha dichiarato di “non essere mai stata forte come dopo la maternità”. Dopo ben quattro olimpiadi vivrà la sua prima da mamma anche la sciabolatrice Irene Vecchi che ha dato alla luce Gregorio nel 2023.
Da mamma a mamma
Le italiane non sono le sole mamme-atlete che scenderanno in gara in questa edizione delle Olimpiadi. «La maternità non è la fine della nostra carriera, torneremo in gara» è il messaggio che atlete del calibro di Shelly-Ann Fraser-Pryce, Shaune Miller-Uibo, Faith Kipyegon, Nia Ali, Ana Peleteiro hanno voluto lanciare in vista di questa edizione dei Giochi. Una sorta di testimone che passa alle nuove generazioni, grazie a quante nell’ultimo decennio hanno deciso di non ritirarsi nonostante le maternità.
Così si moltiplicano gli esempi fra le neomamme, come la tiratrice Amber Rutter, che ha partorito il suo primo figlio, Tommy, solo tre mesi fa ed è giunta a Parigi con l’obiettivo di tornare a casa con una medaglia d’oro. «Se mi avessero detto in vista di queste Olimpiadi che avrei avuto un bambino solo tre mesi prima di competere a Parigi, avrei pensato che fossero pazzi: come avrei potuto farlo? Ora, invece, la mia mentalità è completamente cambiata» ha ammesso Rutter, a cui non mancano le role model in Patria, come Helen Glover. Dopo le Olimpiadi di Londra 2012 e Rio 2016, la campionessa di regate aveva deciso di ritirarsi per dedicarsi alla famiglia. Poi i Giochi di Tokyo sono slittati di un anno e Glover ha avuto il tempo di recuperare e tornare a gareggiare, così Parigi sarà la sua quarta Olimpiade.
Avere un esempio a cui ispirarsi quando si sta per intraprendere la scelta di diventare madre è stato fondamentale per l’atleta americana Gwen Jorgensen. Esclusa dalle Olimpiadi di Parigi ma campionessa olimpica di triathlon a Rio 2016, Jorgensen ha raccontato di aver scelto di diventare madre anche perché incoraggiata dagli esempi di altre atlete che hanno ottenuto risultati di eccellenza nel suo sport.
«Nicola Spirig – ha dichiarato – è stata la più grande: vederla ottenere l’argento dopo aver avuto un figlio, poi avere altri due figli e tornare a Tokyo è stato incredibile. E poi c’è Chelsea Sodaro che ha vinto il mondiale Ironman solo 18 mesi dopo essere diventata mamma. Queste atlete stanno dimostrando che si può fare, dieci anni fa non ci avrei mai creduto. Spero di dimostrare a tutte le mamme che la loro carriera non è finita dopo aver avuto un figlio, voglio fare del mio meglio per ispirare ed offrire uno stimolo a chi la pensava come me».
L’idea che essere madri non rappresenti una penalizzazione ma un valore aggiunto si sta così facendo largo nel mondo dello sport e un esempio arriva proprio dalle olimpiadi di Parigi. La judoka francese Clarisse Agbegnenou ha, ad esempio, dichiarato che il fatto di essere madre l’ha aiutata a superare la delusione per non aver vinto l’oro (ma il bronzo) proprio davanti ai tifosi del suo Paese. Una maternità quindi vissuta come fonte di energia e arricchimento soprattutto sul fronte emotivo e psicologico anche quando magari la gravidanza è ancora in corso. Sempre a Parigi ha lasciato tutti a bocca aperta la sciabolatrice 26enne egiziana Nada Hafez che ha gareggiando incinta di 7 mesi, segnando un record.
Secondo il sito Olympedia.org sarebbero 25 le sportive che si sono presentate ai giochi olimpici con il pancione. La maggior parte di loro ha gareggiato nei primi tre mesi di gravidanza e diverse atlete non sapevano nemmeno di essere incinta al momento della gara ma casi come quelli di Hafez raccontano come le sportive abbia sempre meno remore a portare la maternità anche in gara.
Una nuova narrazione della maternità
Diventare mamma mentre ancora si gareggia è però una scelta rispetto a cui il mondo dello sport, la sua cultura, i diktat degli sponsor e anche la sensibilità degli organi direttivi sono spesso impreparati e nei confronti della quale le tutele sono ancora scarse.
Anche su questo fronte le atlete stanno contribuendo anche a scrivere una nuova narrazione della maternità più sincera e onesta. Molte atlete non si fanno remore ad ammettere le difficoltà, svelando appunto come il mondo sportivo sia ancora impreparato . La ciclista inglese Laura Kenny che ha vinto cinque ori olimpici e sette titoli mondiali mentre diventava anche mamma di due bambini, ha ammesso che avrebbe tanto voluto partecipare anche alle olimpiadi di Parigi ma si è resa conto che conciliare questo impegno con la famiglia era diventato insostenibile.
Kenny aveva affrontato le Olimpiadi di Tokyo 2021 insieme al figlio Albie, nato nel 2017. Un’esperienza impegnativa, soprattutto per la mancanza di supporti alle mamme durante le competizioni, che l’ha portata a scegliere di non ripetere l’esperienza con il secondo figlio nato l’estate scorsa.
La battaglia di Allyson Felix
Tra le prime atlete a battersi affinché la maternità delle sportive sia accettata e tutelata c’è Allyson Felix. 38 anni, ex velocista pluripremiata, ora parte del Comitato olimpico internazionale (Cio), Felix è stata anche colei che più di tutti ha spinto per la creazione della nursery alle Olimpiadi di Parigi 2014.
L’atleta, che nella sua carriera ha conquistato più medaglie di Usain Bolt, ha vissuto sulla propria pelle le difficoltà e la discriminazione legata alla decisione di avere un figlio mentre gareggiava ai massimi livelli. Nel 2018, dopo la nascita della sua prima figlia con un cesareo d’urgenza alla 32esima settimana di gravidanza, ha dovuto combattere con Nike, il suo sponsor dell’epoca, che voleva ridurle il compenso del 70%. Felix ha raccontato la sua esperienza al New York Times all’interno di un’inchiesta sulla discriminazione nel mondo sportivo. La convinzione che maternità e carriera sportiva non sono e non devono essere in antitesi l’ha spinta a spendersi per promuovere iniziative come quella della nursery. Felix si è augurata che questa novità sia solo il primo passo verso un cambiamento della cultura sportiva affinché «nessun’altra donna si senta come se dovesse scegliere tra professione e maternità o che debba nascondere di aver portato una nuova vita in questo mondo».
La pluricampionessa statunitense si batte anche per migliorare l’assistenza durante la gravidanza e la maternità per tutte le donne nere. Secondo i dati del Center for desease control and prevention (Cdc) il loro tasso di mortalità materna negli Usa è 2,6 volte superiore a quelle delle donne bianche. In questa battaglia Felix ha recentemente ottenuto il sostegno di Melinda Gates che le ha donato 20 milioni di dollari da distribuire alle associazioni e agli enti che si occupano di questo problema.
La situazione in Italia
Nel nostro Paese il professionismo femminile è ancora poco diffuso e riguarda, al momento, solo le federazioni di golf e calcio. Nelle altre discipline il rapporto di lavoro non viene regolamentato da contratti nazionali né sono previste garanzie e tutele uguali per tutte. Tutto è affidato al singolo contratto che è il risultato della volontà della società e della capacità di mediazione della sportiva stessa che può provare a chiedere che le siano assicurate delle garanzie in caso di maternità.
Per cercare di aumentare le tutele alla in un settore in cui scarseggiano, dal 2018 il Dipartimento dello sport della presidenza del Consiglio ha introdotto un contributo di mille euro al mese (per un massimo di 12 mesi) che però spetta solo a coloro che percepiscono un reddito inferiore a 15mila euro e non godono di altri tipi di tutele alla maternità. Purtroppo quindi – anche se riconfermato per il 2024 e incrementato a 2 milioni di euro – le maglie per accedere al bonus sembrano essere così strette da lasciar fuori la maggior parte delle atlete.
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