Ministro o ministra? Avvocato o avvocata? Segretario o segretaria? La questione dei femminili professionali è iniziata qualche decennio fa, ma è recentemente diventata più dibattuta, sia per il progressivo empowerment femminile, e la conseguente richiesta delle donne di avere un ruolo e una carica riconosciuti anche dalla lingua italiana, sia per le divergenze di opinioni su questa opportunità. C’è chi dice, anche tra le donne, che la declinazione al femminile è poco importante, in alcuni casi cacofonica, che le questioni della parità di genere si giocano su altri tavoli. E chi invece ne fa- aggiungo giustamente – una questione di role model, di riconoscimento delle posizioni ottenute dalle donne e delle loro legittime aspirazioni. Al di là della grammatica. Ma la grammatica, già di per sè, potrebbe risolvere da sola la questione, e anche i dilemmi che spesso si intuiscono nei comunicati stampa e negli articoli, dove fioriscono spesso “amministratore delegato” e “direttore generale” riferiti a donne, con successivi problemi di concordanze con aggettivi, verbi e pronomi. D’altronde, lo affermava già l’Accademia della Crusca, in un parere del 2017, e lo spiega ad Alley Oop- Il Sole 24 Ore il presidente dell’Accademia della Crusca, Paolo D’Achille. Sui femminili professionali, “come tradizione della Crusca”, c’è una “posizione di largo accoglimento” poiché l’italiano – dice il linguista – ha sempre la possibilità di formare un femminile da un maschile.
Presidente, l’italiano è una lingua sessista?
No, è un lingua storica, che rispecchia la storia degli italiani. Il ruolo diverso avuto da donne e uomini nel corso degli anni, anzi dei secoli, si riflette, infatti, nella lingua. Ma la donna ha avuto sempre un ruolo attivo nella lingua e nella sua trasmissione: anche per l’italiano, si parla di madrelingua, lingua madre, lingua materna, trasmessa dalle donne. Certo, agli occhi della sensibilità odierna alcuni aspetti che in passato non apparivano sessisti oggi vengono percepiti come tali. Non c’è bisogno di snaturare la lingua per sviluppare buone pratiche di comportamento nei confronti delle donne.
Che cosa ne pensa dei femminili professionali, argomento su cui l’Accademia si è espressa con un parere alla Corte di Cassazione?
Ho – com’è nella tradizione della Crusca – una posizione di largo accoglimento, anche perché non creano problemi all’italiano, che ha sempre la possibilità di far derivare un nome femminile da un maschile, e anche, all’occorrenza, quella di formare un nome maschile da un femminile. Esiste infatti anche questo caso.
Può fare degli esempi?
Certamente, ‘mammo’ è entrato nei dizionari, così come ‘prostituto’. C’è anche la parola ‘sirenetto’, che si trova talvolta nei giornali illustrati per riferirsi a uomini che posano in costume da bagno, e che si è formata da ‘sirenetta’, a sua volta diminutivo di ‘sirena’. I casi ci sono, ma sono rari. In generale, è il maschile che funge da base per il femminile.
Ci sono, inoltre, parole di genere grammaticale femminile o maschile, che possono riferirsi a persone indipendentemente dal genere, come appunto “persona”, ma anche “essere”, “individuo”, oppure “ostaggio”, “vittima”.
Che cosa ne pensa, nell’ambito della formazione del plurale, della declinazione al femminile?
La regola dell’italiano è che se abbiamo due nomi, ad esempio “mamma e papà” il maschile è sovraordinato, e quindi si declinerà: “sono usciti”. E così, se in una legge si parla di “cittadini”, sono automaticamente incluse anche le donne. È chiaro però che in espressioni linguistiche, specie se usate in funzione allocutiva, come “signore e signori”, “spettatori e spettatrici”, il doppio plurale è opportuno.
E nel caso ci siano persone di genere fluido? E’ possibile usare un pronome ad hoc come succede in inglese con il ‘they’?
In inglese la forma c’era già, ma nella nostra lingua non esiste niente di simile. La proposta dello ‘schwa’ è, a mio parere, inaccettabile. L’asterisco, il cui uso è limitato allo scritto, in certi contesti informali (penso a messaggi di posta elettronica che hanno più destinatari) può andar bene; su questo segno sono più tollerante rispetto allo schwa. Tuttavia va considerato che sia l’asterisco sia lo schwa possono ingenerare confusione e maggiori difficoltà di lettura per i dislessici. Se il problema di includere il genere fluido dovesse crescere molto, secondo me, la lingua spontaneamente ritornerebbe al maschile non marcato, rinunciando all’aggiunta del femminile. In italiano, infatti, nel singolare non c’è un’altra forma oltre al maschile e al femminile, non c’è un terzo genere. Al plurale, a mio parere, la lingua dev’essere poi più inclusiva possibile e conta la regola della maggioranza. Per evidenziare il femminile, come ho già detto, si può dire: “cittadine e cittadini”, “tutte e tutti”. Il problema non si pone. Ma rappresentare femminile e fluidità assieme è quasi impossibile. Un modo, che uso io stesso quando mi rivolgo a una platea ampia, davanti a gente che non conosco, è quello di dire: “tutte le persone presenti”.
Si potrebbe inserire di imperio qualche nuova forma?
La lingua si è sedimentata nel tempo e ha un rapporto molto forte con la tradizione. Nell’uso personale si può fare come si crede, ma l’imposizione di una norma dall’alto è propria delle forme di governo dittatoriali, dei regimi totalitari. Sono forme che normalmente decadono con il crollo del regime, pensiamo al “voi” imposto invece del “lei” nel periodo fascista.
Quali altri accorgimenti, oltre all’uso dei femminili professionali, possiamo usare per rendere la lingua più inclusiva e meno sessista?
Meglio evitare l’articolo prima del cognome femminile, anche se in certe zone d’Italia l’articolo è usato anche per l’uomo, in maniera paritaria.
A livello giuridico si possono ingenerare problemi se non viene nominato il genere femminile?
La forma nei testi giuridici è anche sostanza, è importante che la donna si senta rappresentata. Ad esempio, nei bandi di concorso pubblicati dall’Accademia viene sempre scritto “il candidato/la candidata”. Nel singolare è bene non mettere metto il solo maschile anche perché sembrerebbe prefigurare un vincitore e non una vincitrice. Nel plurale, invece, è meglio dire semplicemente ‘i candidati’.
L’italiano è una lingua più problematica di altre rispetto all’inclusività?
In italiano il genere grammaticale è molto marcato. Comporta l’accordo degli aggettivi, dei pronomi, la scelta tra articoli articoli. Insomma, l’impianto dell’italiano, a differenza dell’inglese, è marcato sul genere. Ci sono stati di recente tentativi di semplificazione che possono risultare accettabili, ma in generale si tratta di scelte rischiose perché possono far saltare tutte le regole di concordanza e pregiudicare la chiarezza dei testi. Il problema dell’inclusività, tuttavia, riguarda un po’ tutte le lingue; l’italiano è arrivato un po’ in ritardo ad affrontare la questione, ma mi pare che ora si sia messo alla pari con le altre lingue, almeno sul piano generale.
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