Le immagini necessarie. Il Festival della Fotografia Etica di Lodi

Il marito di Sarah, Blas conforta la figlia Elena, 15 agosto 2020, Colonia, Germania. La famiglia di Sarah era arrivata dall’Argentina per ripararsi dall’epidemia di Covid. In questi giorni Sarah ebbe il suo terzo aborto spontaneo. © Sarah Pabst

Lodi si popola, fino al 29 ottobre, di “storie uniche, emozionanti ma necessarie” come sintetizza con brillante formula Alberto Prina, il direttore del Festival della Fotografia Etica, giunto al traguardo della 14esima edizione. Voci dal mondo, che faticano spesso a farsi largo sui media, sollecitano la nostra attenzione e ci chiamano prepotentemente in causa: nonostante due secoli di storia sulle spalle, la macchina fotografica non ha nessuna voglia di dichiararsi obsoleta, al contrario rinverdisce e dimostra impensabile versatilità e potente energia, capaci di scuoterci come una scarica elettrica.

Il festival calza ormai come un guanto alla cittadina lombarda, percorsa nei weekend dai numerosi visitatori riconoscibili dal tipico braccialetto al polso, intenti a perlustrare le vie dell’elegante centro storico alla ricerca delle varie tappe in cui, come di consueto, la kermesse si articola.

Storie dal mondo

È bene avviare la visita dalla sezione “A World Report Award” ospitata in Palazzo Barni, a due passi da piazza del duomo, dove ci accoglie il reportage L’assedio di Mariupol di Evgeniy Maloletka, vincitore (con la foto qui accanto) del World Press Photo dell’anno, il massimo riconoscimento del fotogiornalismo internazionale. Membro dell’Associated Press, Maloletka è stato tra i pochissimi reporter rimasti nella cittadina del Donetsk, documentando dall’interno la battaglia di Mariupol (24 febbraio – 20 maggio 2023), infine conquistata dai russi nella primissima fase dell’invasione. Persone sdraiate sul pavimento delle proprie case o immobili sulle scale mentre i russi bombardano, famiglie rifugiate in palestre o cantine riadattate a rifugi che, sotto le luci fioche dei generatori, condividono cene frugali, neonati feriti e abbandonati dai genitori e, in un’escalation inarrestabile, le mani pesanti sporche di sangue del papà di Evangelina (3 anni) in lacrime accanto alla figlia ferita (che non sopravviverà), i cadaveri di civili seppelliti in fosse comuni: il fotografo mostra con asciutta misura, chiarezza e rispetto come la guerra strazi i corpi e incida le anime dei suoi connazionali, lasciando macerie destinate a rimanere a lungo.

Volontari e poliziotti ucraini trasportano dal reparto di maternità dell’ospedale di Mariupol una donna incinta ferita nei bombardamenti. Mariupol, Ucraina, 9 marzo 2022. La donna e il suo bambino sono poi morti nei successivi bombardamenti russi sull’ospedale in cui erano stati portati. © AP Photo / Evgeniy Maloletka

Il fotogiornalismo da tempo non è più concentrato esclusivamente sugli eventi politici e della Storia con la s maiuscola, ha imparato a rivolgere la sua attenzione alla vita quotidiana delle persone, in cui, come in uno specchio, si riflette con concreta immediatezza quella della società. È il caso degli alpaca e delle comunità andine che vivono grazie alla pregiatissima lana di questi animali di alta quota, di cui si occupa l’italiano Alessandro Cinque in Alpaqueros, facendo vedere gli effetti devastanti del cambiamento climatico sulle Ande peruviane, che hanno perso il 40% (!) dei ghiacciai rispetto agli anni ’70, trasformando gli andini in “migranti climatici” costretti a raggiungere quote sempre più alte per trovare campi in cui far pascolare gli animali. Il fotografo umbro, da anni residente a Lima, narra con partecipazione e poesia la lotta di una comunità impegnata a difendere il proprio modo di vita, mostrando l’intimo legale con gli alpaca nello scenario di severa e affascinante bellezza delle immense catene montuose.

Particolarmente negli ultimi anni sono sempre di più i fotografi affascinati da storie individuali apparentemente marginali, eppure di straordinaria ricchezza, come quella dell’undicenne Zoey (The last generation. Zoey’s Dream), che vive nel Kentucky con i nonni, aiutandoli a portare avanti la fattoria di famiglia. Con un bianco e nero dalla grana morbida e polverosa come i campi di granoturco soffusi di polvere e terra l’americano Bob Miller ci racconta la passione e la tenacia con cui Jackie Allen (il nonno di Zoey) governa i 260 acri di campi di soia e grano della sua media impresa agricola, resistendo alla concorrenza sempre più spietata delle grandi imprese con l’invasiva potenza di una meccanizzazione sempre più aggressiva. Osservando Joey che volteggia con maestria sul suo cavallo, montato senza sella come i nativi americani (“Non avrei mai immaginato che potesse diventare così brava… ha un talento naturale” dice Jackie), ci rendiamo conto che la fattoria degli Allen è un microcosmo di una cultura agricola antica e radicata, preziosa, oggi minacciata.

Ma quale storia è più intima di quella che ci riguarda? Ci vogliono coraggio e conoscenza di sé non comuni per avventurarsi nei territori spesso oscuri dentro di noi, come fa la tedesca Sarah Pabst (Everyone in me is a bird), – sua è la foto con si apre il pezzo –, alternando con rara poesia foto documentarie (la casa, sua figlia, suo marito) a immagini evocative che si tramutano in simboli di un percorso esistenziale sofferto e profondo: la Pabst ha attraversato infatti la morte del giovane fratello, la scoperta gioiosa un mese dopo di essere incinta della prima figlia Elena, il dolore di ben tre successivi aborti spontanei e, infine, la inaspettata e felice gravidanza da cui nascerà il secondo figlio. In questo reportage intimo, svolto su un’arcata temporale di 6 anni, l’autrice ha saputo condurre la propria fotocamera tra le pieghe della mente e i sospiri del cuore, regalandoci immagini commoventi per verità e bellezza.

Le vite degli altri

Un altro signorile edificio del centro, palazzo Modignani, accoglie la sezione dedicata alle “Vite degli altri”. Gli altri sono i giovani nord-irlandesi della capitale di Toby Binder (Youth of Belfast), le cui foto, dal bianco e nero ispido, le diagonali appuntite e i ritratti deformati dal grandangolo, sembrano aggredirci, facendoci sentire sottopelle il disagio di questi ragazzi, la cui già problematica quotidianità trova un ulteriore elemento di disturbo nella Brexit, che, contravvenendo all’impegno sancito dalla pace del 1998 per un confine sempre aperto e facilmente attraversabile fra l’Ulster e l’EIRE, ha di colpo nuovamente approfondito il solco fra le due Irlande. Sono i tibetani delle province del Sichuan e del Qinghai di cui Paul Ratje (New Tibetans) ci mostra il modificarsi dello stile di vita a contatto con l’arrembante civiltà cinese e la ricerca di un difficile equilibrio fra fedeltà alla tradizione e apertura alla modernità, di cui è emblema il grande ponte autostradale che fa capolino in diversi scatti, svettando su altissimi piloni in cemento.

Il monte Uummannaq, il cui nome significa montagna a forma di cuore, il cuore della foca. Ai suoi piedi, a 590 km a nord del Circolo Polare nella Groenlandia occidentale, giace l’omonima città, abitata da 1325 persone. Il villaggio è collegato al resto del mondo solo tramite nave ed elicottero. © Lukas Kreibig

Sono ancora gli inuit della città costiera di Uummannaq in Groenlandia, ai piedi dell’omonima montagna, il cui nome significa “cuore di foca” perché la sagoma richiamava questa immagine agli abitanti. Lo sguardo affascinato del tedesco Lukas Kreibig (Heart of a Seal), in uno dei servizi più belli del festival, ci regala immagini memorabili, passando da superbi scorci paesaggistici su un panorama mozzafiato di acque e ghiacci che si perdono in orizzonti sconfinati a interni angusti, fumosi e scarsamente illuminati, che testimoniano la durezza della vita quotidiana, in un contesto reso ancora più sfidante dal cambiamento climatico che, con l’innalzamento delle temperature, mette a rischio le attività tradizionali.

È invece una comunità di elezione quella di cui ci parla la statunitense Laura Morton in Wild West Tech, costituita da esperti di informatica e Hi Tech confluiti dai quattro angoli del globo nella silicon valley, dove hanno creato una enclave internazionale che vive separata dalla città di S. Francisco, in una sorta di bolla di autoprotezione, coesa e fragile al tempo stesso, seguendo propri ritmi, abitudini e stili di vita.

Altre storie, altri sguardi

Ci sono diversi altri lavori che meritano di essere visti, ma su cui non posso soffermarmi. Basterà ricordare lo “Spazio ONG” nel Chiostro dell’Ospedale Vecchio con la dura inchiesta di Davide Torbidi, segretario CGIL di Lodi e fotografo, sugli infortuni sul lavoro (Ho visto e non ho più dimenticato) e il toccante Donde no habite el olvido (dove non c’è oblio) della spagnola Maria Clauss, coraggioso reportage sulle fosse comuni della guerra civile a Huelva in Andalusia: i ritratti dei bambini di allora, oggi ottantenni e novantenni, che persero genitori, fratelli e sorelle, parenti, i luoghi di detenzione e tortura, gli effetti personali riemersi dalle viscere della terra – un pettine, qualche lettera, bottoni, bossoli di pallottole – sono resi in fotografie dall’illuminazione calda e il chiaroscuro intenso, quasi a erigere un altare alla memoria delle vittime.

Il palazzo della Provincia accoglie invece la sezione “Uno sguardo sul mondo”, con le immagini dei più importanti avvenimenti dell’anno viste dai fotografi di AFP, mentre anche quest’anno il Festival presenta presso lo spazio Bipielle una selezione dei lavori premiati dal World Press Photo, che rappresentano il meglio del fotogiornalismo internazionale.

Boffalora D’Adda, Lodi. Una ragazza si bagna sul fiume Adda dopo il tramonto. © Gabriele Cecconi

Il suggestivo spazio della Cavallerizza ospita il bellissimo reportage Elegia lodigiana, finanziato dal Ministero e commissionato dalla Provincia di Lodi a Gabriele Cecconi. La scelta di un autore non lodigiano (Cecconi è di Orvieto) nasce dalla volontà di affidarsi a uno sguardo esterno, capace di osservare il territorio con occhi vergini: il reporter esplora con sensibilità e partecipazione il paesaggio plasmato dalla straordinaria abbondanza di acque, risorsa fondamentale per la grande produttività agricola del territorio, descrivendo in immagini di grande bellezza il continuo mutare di luci, colori e atmosfere lungo l’avvicendarsi delle stagioni e la relazione simbiotica tra i lodigiani, il fiume Adda e il territorio, un legame tenace, oggi minacciato dai dissesti climatici e ambientali che non concedono tregua.

Il contatto visivo con una megattera è incredibilmente potente. Sono animali intelligenti, curiosi, sociali, con personalità e stati d’animo unici, che si riuniscono in tutto il mondo per alcuni mesi per socializzare, riprodursi e crescere i loro piccoli appena nati. Questo è l’occhio di un cucciolo di megattera che si è avvicinato al fotografo mentre era in apnea al largo di Vava’u, a Tonga., Polinesia. © Iliya Karim .

Da non perdere infine lo “Spazio Approfondimento” alla Chiesa dell’Angelo, con le fotografie naturalistiche e ambientali messe in vendita dall’organizzazione no profit “Vital Impacts”, fondata dalla grande reporter Ami Vitale (qui la mia intervista a lei), il cui ricavato sosterrà “il Reteti Elephant Sanctuary in Kenya, il primo santuario di elefanti in Africa creato e gestito dalle popolazione indigene”. Dopo essersi immersi nelle magnifiche immagini di grandi maestri della fotografia naturalistica, dalla stessa Vitale a Beth Moon, da Paul Hart a Marina Cano, è difficile non uscire commossi e vergognosi per l’arroganza con cui spadroneggiamo su questo pianeta che ci è stato dato in condivisione con milioni e milioni di altre specie viventi.

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