Le foto di Farnaz Damnabi sollevano i veli dell’Iran. Una mostra a Milano

Lo sguardo della giovane fotografa iraniana Farnaz Damnabi (Teheran 1994) ci fa scoprire un Iran inatteso e sorprendente nella mostra Unveiled, che continua fino al 30 settembre presso la galleria milanese 29 Arts in Progress.

L’esposizione, che avrebbe dovuto finire in luglio, è stata prorogata per il grande successo riscontrato e per l’interesse, inusuale nei confronti di una giovane fotografa, suscitato presso la stampa italiana e internazionale.

Il nesso fotografa / donna / Iran alla luce degli avvenimenti di cronaca di questo periodo è un motore potente nel suscitare attenzione, perciò, per non trarre in inganno chi legge, penso sia meglio dire prima cosa questa mostra non è. Non troverete quello che le tre parole di cui sopra rischiano di richiamare con automatica inerzia alla mente di noi italiani e occidentali, che guardiamo all’antica Persia attraverso le nostre lenti interpretative appiattite sull’attualità più spinta: non è una mostra sulle proteste di questi ultimi mesi, né un reportage di denuncia condotto da una reporter di un’agenzia fotografica internazionale, che viene mandata in un paese di cui magari sa molto poco, ci resta una settimana o due, riprendendo gli avvenimenti più spettacolari, vale a dire più mediatici, invia alla redazione le sue immagini, sale sull’aereo e si sposta sul prossimo teatro d’azione finito sotto i riflettori.

Con gli occhi di Farnaz

Liberato il campo dai possibili fraintendimenti, scopriamo invece che cosa Unveiled è: un affascinante percorso attraverso il quale Farnaz Damnabi ci conduce per mano alla scoperta della vita quotidiana degli iraniani e, con particolare attenzione, delle iraniane; guardiamo il paese dall’interno, attraverso lo sguardo di una giovane e talentuosa fotografa, capace di scrutare con rigore e delicatezza sia le distorsioni, le incongruenze e le dolorose ingiustizie dell’Iran odierno, dove la condizione della donna è per molti versi fragile e minacciata da più parti nella propria integrità e dignità, ma al tempo stesso orgogliosa del proprio paese, di cui sa osservare con sensibilità la molteplice, talvolta nascosta bellezza, e raccontare la tenacia, il coraggio e la determinazione con cui uomini e donne portano avanti la propria vita, cercando di affermare la propria personalità.

Loneliness in capital, 2019 © Farnaz Damnabi / Courtesy of 29 ARTS IN PROGRESS gallery

Un’immagine che mi ha particolarmente colpito a questo proposito è il delicato bianco e nero di Solitudine nella capitale: i volti delle donne, ripresi attraverso il vetro rigato dalla pioggia dai finestrini dell’autobus che le sta probabilmente riportando a casa dopo la giornata di lavoro, mentre fuori si staglia un’anonima tangenziale con un’elegante auto a mezzo della corsia e sullo sfondo un’altissima, moderna torre – il volto dell’Iran moderno e post-industriale – sono uno spaccato commovente di vita quotidiana, in cui si riflettono stanchezza e abbandono (nelle donne sedute in primo piano, la maggior parte a occhi chiusi), ma anche giovinezza, entusiasmo e speranza nel profilo della ragazza in piedi, che guarda dritta davanti a sé, consapevole e fiduciosa. In un’unica immagine scopriamo un mosaico di stati d’animo, di sensazioni sfuggenti, di emozioni colte con finezza e sensibilità di ascolto.

Iran, un paese molteplice

La stessa sensibilità con cui la nostra artista ha saputo osservare, in un villaggio della provincia settentrionale del Golestan, una bambina vestita di verde, riprendendola accanto al nudo telaio di sostegno di alcune altalene tagliate: è una fotografia che appartiene alla serie dal titolo eloquente “Giocare è un mio diritto”. Lo sguardo sereno e leggermente sorridente della bambina ci dice certamente che giocare è un’attitudine dell’animo, una dote innata nell’infanzia, ma Farnaz Damnabi soggiunge che si tratta di una dote che deve essere favorita e coltivata, per permettere all’infanzia di essere veramente tale. Ho utilizzato i verbi dire e soggiungere, ma il linguaggio dell’immagine è differente, veloce, apparentemente impalpabile, ma in realtà carnale, capace di innescare una reazione emotiva in ciascuno di noi.

Il ritratto dell’Iran che possiamo ricavare dalla mostra, parziale come ogni ritratto, ci parla di un paese non monolitico, al cui interno tante cose accadono e tante energie si muovono, se chi osserva è dotato di quella dote, tipica dei veri fotografi, di sapere cosa guardare e come mostrarlo: spesso una fotografia che funziona sembra quasi banale, ma sempre dopo, una volta che è stata scattata, quando ci appare cioè naturale come un frutto che necessariamente ha quell’aspetto. Ma ogni immagine è sempre il risultato di riflessione, pazienza, acume e senso della forma.

Come l’immagine con cui ho scelto di aprire il pezzo, Surveillance: una donna che veste lo hjab richiesto dalla legge coranica (il velo corto, simile a un foulard, a ricoprire il capo e cingere collo e spalle) è seduta in autobus e consulta il suo smartphone, mentre dietro di lei fa capolino dal finestrino, sfocata e distante ma perfettamente riconoscibile, la sagoma di un ayatollah – il presidente Ebrahim Raisi o, più probabilmente, Ali Khamenei, la Guida Suprema – che la osserva: non è possibile nella società iraniana sfuggire l’occhio onnipresente del potere, che vigila e sorveglia ogni cittadino e, a maggior ragione, ogni cittadina, inflessibile e implacabile.

Un Paese in viaggio

Ma il popolo dell’Iran, nonostante tutto, non si ferma, le cose forse faticosamente – piaccia o non piaccia – cambiano, come testimonia la vicenda stessa di Farnaz che, cresciuta in una famiglia colta, è per certi versi una ragazza privilegiata, degna rappresentante del nuovo volto del Paese: sua madre è un’artista, lei ha studiato Design all’università di Teheran e conseguito poi un Master in fotografia, diventando ben presto una freelance. Non è facile fare la fotografa in Iran: la cosiddetta street photography è un’attività soggetta a rischi, che si muove sovente su un sottile filo teso fra ciò che è lecito e ciò che è proibito, infatti, inizialmente, uno dei genitori la accompagnava sempre, pronto a intervenire per spiegare che per una giovane studentessa di fotografia era fondamentale esercitarsi. Man mano si è abituata a muoversi da sola, a sviluppare le proprie tecniche e astuzie, che le consentissero di fotografare in diverse situazioni, e così sono cominciate le prime mostre e i riconoscimenti: nel 2017 la vittoria del PABA International Photo Competition di Washington (USA) e l’anno seguente del Global Photography Contest in Cina. Attualmente è Main Member della National Iranian Photographers’ Society (NIPS).

L’amore per la propria gente e il proprio paese in tutti gli aspetti si vede per esempio nei servizi dedicati alla raccolta dell’oro rosso, vale a dire lo zafferano, orgoglio dell’Iran, che ne è il primo produttore al mondo, coprendo da solo il 90% del fabbisogno globale. La donna intenta ad amorevolmente separare gli splendenti petali viola del fiore dallo stigma (la parte superiore del pistillo), mentre un bambinetto fa capolino dalla tenda verde sulla sinistra, vanno ben oltre un semplice scatto di documentazione sul lavoro nelle campagne: l’intimità, anzi la domesticità del focolare, e la delicata sollecitudine verso i frutti della terra pervadono quest’immagine, assieme a un’eleganza antica, evidente nel prezioso tappeto, nella tenda fiorata, negli abiti stessi della donna.

Lost Paradise-No3, 2015 – © Farnaz Damnabi / Courtesy of 29 ARTS IN PROGRESS gallery

Mi piace concludere con una serie che testimonia la grande versatilità di poetica e di mezzi espressivi che Farnaz Damnabi ormai padroneggia, “Lost Paradise”, nelle cui immagini riprende di spalle una donna, sullo sfondo sontuoso di un tipico tappeto persiano appeso dietro la figura, dando vita a fotografie tanto eleganti quanto spiazzanti: colori e pattern a contrasto dell’abito e del tappeto si confondono, rendendo di primo acchito difficile distinguere la sagoma umana in primo piano. La fotografa sceglie infatti di occultare il volto e di mostrarci le donne di questo progetto come fossero manichini, utili solo a indossare eleganti abiti: quale più immediato e potente modo di farci vedere e sentire l’invisibilità delle donne? Negando il volto, neghiamo l’essenza della persona, la sua individualità e riconoscibilità: è questo – sembra dirci con stile raffinato ma graffiante Farnaz – che l’Iran desidera?

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