La magistratura, specchio del Paese, è “in un ritardo profondo”, recepisce gli stereotipi sessisti dai giornali e dalla società; la politica deve recepire le indicazioni del Grevio, organismo che vigila sulla Convenzione di Istanbul sull’eliminazione della violenza sulle donne, ed è chiamata a una sfida, ora che ci sono due leader donne al Governo e all’opposizione: adottare “nuove regole” affinché tutte le donne, non solo le ‘wonder woman’, abbiano pari opportunità.
Queste e molte altre sono le sollecitazioni che arrivano dal tavolo che si è tenuto ieri per presentare il libro “Ho detto no. Come uscire dalla violenza di genere” edito dal Sole 24 Ore, autrici Chiara Di Cristofaro e Simona Rossitto. Il confronto, moderato da Vanna Palumbo della Commissione parti Opportunità di Stampa Romana, è avvenuto nella sede del sindacato, e, come ha precisato Lazzaro Pappagallo, segretario uscente che ha aperto i lavori, nel campo della lotta alla violenza sulle donne c’è un forte richiamo “alla dimensione della consapevolezza e del lavoro collettivo”, dimensione quindi tipica sindacale, che supera i personalismi per puntare al lavoro di rete.
Giudice DI Nicola: “Abbiamo le leggi migliori del mondo ma non le applichiamo”
Ma cosa non funziona, che cosa manca se ci troviamo a contare ancora 125 femminicidi nel 2022 con l’8 marzo, giornata dedicata ai diritti delle donne, funestato dall’ennesimo fatto di sangue? I partecipanti al tavolo hanno fatto un lavoro di introspezione, tirando fuori le lacune esistenti nei campi che meglio conoscono. “La magistratura italiana – ha detto Paola Di Nicola Travaglini (giudice tra le massime esperte di violenza maschile sulle donne autrice tra l’altro de ‘La mia parola contro la sua’) – è la rappresentazione di quello che accade fuori dalle aule di giustizia, è la ricettrice di quello che succede. Laddove un Paese esprime stereotipi sessisti inevitabilmente questi ultimi passano per gli articoli di stampa e arrivano nelle nostre sentenze. Ad esempio, un femminicidio, raccontato come raptus di gelosia, è stato motivato richiamando passi dell’Otello di Shakespeare”. E in sostanza, il femminicida, preda del raptus, questo era il ragionamento, “non aveva potuto fare altro che ucciderla”.
In generale in Italia, prosegue la giudice, “abbiamo le leggi migliori del mondo ma non le applichiamo, perché siamo fortemente inquinati dal punto di vista culturale da stereotipi sessisti. La violenza esiste nelle nostre famiglie, ma non ci piace vederlo. Il ritardo profondo della magistratura c’è perché è il ritardo del nostro Paese, dei nostri giornali, delle nostre trasmissioni televisive dove vengono invitati solo uomini: è omessa la competenza femminile, questo è il tema. Tutto ciò determina che nell’ aula di giustizia è facile confondere violenza con lite familiare. Se si riconosce la violenza, invece, si è in grado di indossare quelle lenti di genere che ci fanno vedere cos’è la discriminazione, che poi diventa violenza e femminicidio”.
Il raptus, ribadisce Di Nicola, non esiste, che mette in dubbio anche quel 7% di sentenze assolutorie “per incapacità di intendere e volere”: “Sarebbe opportuno – spiega – leggere le consulenze sulle quali si basano le sentenze, sono state scritte da medici che non hanno idea di cosa sia la violenza sulle donne. E’ come se attribuissimo una lettura del fenomeno criminale a chi non ha idea di cosa sia la mafia, non sarebbe consentito poiché la mafia ha le sue modalità, i suoi codici. Questo per la violenza sulle donne non vale”. Se ne occupano infatti anche persone senza una debita formazione.
Lanzoni (Pangea): metter mano alla giustizia riparativa nei casi di violenza
L’operato dell’Italia, in quanto firmataria della Convenzione di Istanbul, è monitorato dal Grevio, organismo indipendente, ha ricordato Simona Lanzoni, vicepresidente di Pangea.
L’ultimo rapporto sull’Italia è stato pubblicato nel 2020 e il Covid, ha ricordato Lanzoni, “ha inficiato la possibilità di dare attuazioni alle raccomandazioni Grevio, sono state fatte alcune cose, e non altre. C’è ancora un margine per lavorare sulle raccomandazioni iniziali. Quest’anno Italia sarà di nuovo esaminata dal Comitato degli Stati Parte, bisognerà raccontare che cosa è stato fatto e aggiustare, in caso, il tiro”.
D’altro canto, ha aggiunto, “ c’è tutto il lavoro svolto dalla società civile, Italia ha ricevuto ben 7 rapporti Ombra, la Svezia neanche uno. Quella dell’Italia è veramente una risposta democratica. Quindi, non ci dobbiamo solo piangere addosso, siamo vivi, siamo vive, abbiamo una meravigliosa società civile molto attiva”.
Il bicchiere è da vedere anche mezzo vuoto, però: “Dal punto di vista di Pangea, cioè della rete dei centri anti violenza, malgrado ci siano più strumenti la situazione peggiora, considerata anche la problematica della giustizia riparativa che ci sta traumatizzando”. Lanzoni fa un esempio di proposte di mediazione – mediazione che non è stata esclusa dalla riforma Cartabia nei casi di violenza – nel caso di un matrimonio forzato, coinvolta una ragazzina di 14 anni, o di una signora bengalese che dopo la denuncia si ritrova le 4 ruote della macchina squarciate. E’ evidente che in questi casi non c’è quella parità tra le parti che può consentire una mediazione. “Speriamo – dice Lanzoni – che vengano rimesse mani sulla questione giustizia riparativa”.
Leiss (Maschile Plurale): incidere sulla struttura dei mezzi di comunicazione, serve competenza
Sul ruolo degli uomini nel combattere la violenza è intervenuto Alberto Leiss, giornalista e membro dell’associazione Maschile Plurale, associazione nata proprio per dar voce a un altro modello maschile, pluralista e aperto al confronto con le donne. “Il problema della violenza – ha detto Leiss – è un nostro problema, un problema di noi uomini, non solo di quelli che esercitano violenza. La cultura patriarcale passa infatti attraverso tutti, anche attraverso le donne, ma soprattutto attraverso gli uomini”. Leiss, parlando nella sede di Stampa Romana e ricordando le esperienze avute anche a livello del sindacato, ha poi colto l’occasione per sottolineare che è “necessario incidere sulla struttura dei mezzi di comunicazione”, occorre cioè “uscire dalla dinamica del tempo reale, del minuto per minuto. Per scrivere sensatamente ci vogliono competenze, una cultura libera da pregiudizi, ci vogliono tempo e modalità”.
Valente: “sfida alla politica, le donne che arrivino cambino le regole per chi non ce l’ha fatta”
In ultimo, ma non in ultimo, il ruolo cruciale che è chiamato a svolgere la politica. “La Commissione che ho avuto l’onore di guidare ha condotto una battaglia – ha affermato Valeria Valente, senatrice e già presidente della Commissione di inchiesta del Senato sul femminicidio – che credo provasse a non essere politicizzata. L’ultimo atto della mia presidenza è stato quello di presentare un ddl a mia prima firma, ma approvato all’unanimità, per istituire in questa legislatura una commissione bicamerale” sul femminicidio.
Ora “credo che la politica debba fare uno scatto in avanti e nominare i componenti della Commissione, riprendere un lavoro che è stato fatto di ben 13 relazioni. Bisognerebbe sollecitare Governo e Parlamento a dare seguito a quanto abbiamo detto”. Valente ha fatto alcuni esempi: “sui centri anti violenza la legge numero 119 è una buona legge, ma c’è un corto circuito di tempi, di procedure, non è possibile farli lavorare senza la possibilità di programmare, di valorizzare le competenze. Ci sono criteri delle intese Stato-Regioni che vanno rivisti, occorre fare attenzione, vedere prima che cosa fanno i centri nella prevalenza della loro attività, non premiamo tutti indistintamente”. Quanto agli uomini maltrattanti “nella nostra relazione diciamo che è bene che l’uomo frequenti i centri di recupero, ma non deve solo frequentarli, occorre anche che qualcuno si assuma l’onere di certificare il percorso; se poi basta dire che ha fatto tre incontri per avere un beneficio penitenziario questo diventa un problema. Un ultimo esempio: le misure cautelari ci sono, ma se non vengono richieste occorre chiedersi perché. Quando la giustizia non riesce ad arrivare in tempo, nonostante una donna vi si sia rivolta, come possiamo dire che lo Stato non abbia fallito?”
E allora ripercorrendo anche le tappe del libro, per Valeria Valente occorre innanzitutto “che ci sia la consapevolezza del fenomeno, a partire dalla donna che però non va colpevolizzata qualora non riesca a riconoscerla, c’è un’intera società civile che se ne dovrebbe far carico”. La seconda tappa “è quella di rivolgersi a qualcuno” a partire dai centri anti violenza specializzati, e quindi iniziare un iter che, se la rete funziona, può salvare la donna. “Chiudo – ha concluso Valente – con una sfida alla politica: oggi ci sono due leader femminili in due campi avversi: sono due esperienze diverse di leadership. Il tema non è che una arrivi, il tema è che quella che arriva deve cambiare le regole per chi non ce l’ha fatta. Non possiamo essere tutte ‘super woman’, o ‘wonder woman’, dobbiamo avere il diritto di rivendicare di essere persone normali e potercela fare e giocare ad armi pari. Cambiamo in meglio, scompaginiamo i modelli, per le donne e anche per gli uomini, anche loro sono vittime di tanti stereotipi”.
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