“Abito una ferita sacra”
Aimé Césaire, poeta martinicano
Nei giorni subito dopo l’annuncio della morte della regina Elisabetta II, è cominciato il dibattito sull’eredità politica, storica e culturale che ha lasciato. Secondo un articolo del New Yorker, scritto in occasione dei festeggiamenti dei 70 anni di regno, la solidità (vera o presunta) del Commonwealth è la sua eredità, ovvero l’unione politica di Stati formalmente liberi e uguali, su cui però il Regno Unito mantiene un primato di potere e prestigio. Eppure quella del colonialismo è una storia in cui gli intenti celebrativi cozzano con la realtà.
La violenza del pensiero coloniale sembra plasmare ancora oggi i retaggi culturali che per secoli hanno raccontato una storia filtrata e collusa con il potere. Il detto secondo cui la storia la raccontano i vinti non è sufficiente a giustificare quel bias culturale che porta a parlare di cancel culture quando si affronta la legittima presa di posizione delle minoranze che emergono dall’invisibilità. Minoranze, poi, è un termine che andrebbe sostituito e aggiornato, affinché sia chiaro che non si tratta di minoranze numeriche ma di persone con una storia, una cultura e un bagaglio volutamente e scientemente messe a tacere per secoli.
Se con questo sguardo si affronta l’enciclopedia Britannica alla voce “Letteratura caraibica”, non si può evitare di sentire un pizzicore fastidioso nel leggere che fino alla fine del Settecento essa sarebbe stata “una propaggine e un’imitazione dei modelli delle potenze coloniali: Spagna, Francia , Gran Bretagna e Paesi Bassi. Gli scrittori caraibici, tuttavia, non erano ignari del loro ambiente”. Quest’ultima concessione (paternalistica, ahimé), non dà l’idea nemmeno vaga di quella che è la potenza sprigionata dalla letteratura caraibica, ovvero il vasto contenitore in cui si fa confluire tutta la letteratura sorta in tutti i territori dei Caraibi, o da autori emigrati ma originari degli arcipelaghi, indipendentemente dalla lingua, inglese, spagnolo, francese, indostano o olandese, o uno dei numerosi creoli. Ma non è solo il multilinguismo a dare idea dell’incredibile varietà che compone questo canone, che è frutto di incroci tra generi e linguaggi, tra oralità e scrittura, tra culture e popoli che si sono incontrati e soprattutto scontrati, generando una scrittura ibrida e cangiante, ma anche saldamente connessa alla terra, in senso di territorio, certo, ma soprattutto in senso di elemento spirituale di una cosmogonia complessa e affascinante.
Tutti gli elementi naturali sono presenti quasi come personaggi silenziosi in molta letteratura caraibica: il mare, la vegetazione, il vento, la pioggia, non sono solo lo sfondo in cui avviene l’azione, ma sono in qualche modo i laconici testimoni delle vicende umane. Questo avviene in maniera più che mai evidente nel romanzo “La sirena di Black Conch” di Monique Roffey, scrittrice e attivista di Trinidad, tradotta per Marsilio da Ada Arduini.
Si tratta del racconto agrodolce della storia d’amore tra un pescatore, David, e una sirena secolare, Aycayia, maledetta dalle donne gelose della sua bellezza. I loro incontri segreti fatti di sguardi, silenzi e canti intonati da David vengono interrotti da due uomini venuti dalla Florida per vincere il primo premio in una gara di pesca. Ecco che per fortuita e incredibile trama pescano Aycayia, e la brutalità con cui esercitano un pur sorpreso diritto di possesso fa i conti con l’amore di David, che la rapisce per riportarla in acqua e lasciarle essere ciò che è.
Le memorie mitiche della sirena si intrecciano con i dettagli nitidissimi del mondo reale, l’ottusità del colonialismo bianco portata in scena dai pescatori è l’ombra oscura del personaggio di Miss Rain, proprietaria terriera bianca che fa i conti con il passato della propria famiglia e cerca con la stessa disperazione dei colonizzati di costruire la propria identità. Aycayia, l’essere fantastico che viene da un passato remoto e indefinito, si insinua come acqua tra le fenditure di queste relazioni complesse e anacronistiche (l’atto di indipendenza di Trinidad e Tobago risale al 1962), e non fa altro che spezzare i legami già lacerati (come quello fra i pescatori, padre e figlio) e dare una luce benevola a quelli che stanno emergendo dal magma del passato. In definitiva, è una storia archetipica, quella dell’outsider che irrompe in una comunità rivelandola a se stessa.
Lo stesso archetipo attraversa l’ultimo romanzo di Maryse Condé, scrittrice francese originaria della Guadalupa. Nel suo “Il Vangelo del Nuovo Mondo”, edito da Giunti e tradotto da Silvia Rogai, l’outsider che rimescola il mondo è un neonato. La domenica di Pasqua due coniugi lo trovano nel capanno del loro giardino e interpretano la sua venuta come un dono del cielo. Il fatto è che il bambino, dalla bellezza ultraterrena, cela dentro di sé un mistero. Il sottotesto che si intreccia col Vangelo di Condé è ovviamente quello dei Vangeli cristiani: il bambino presto si rivela dotato di straordinari talenti e il suo viaggio evoca in più occasioni quello di Cristo.
L’intento non è affatto di riscrivere i Vangeli in una prospettiva postcoloniale, è più una sorta di variazione sul tema, di aggiornamento: Pascal crescendo mostra un temperamento rivoluzionario e un profondo disgusto per l’ingiustizia, offre tenerezza ai dimenticati e attraverso di lui l’autrice mette in scena la clemenza verso la miseria e al contempo un profondo sarcasmo verso il consumismo, la stupidità, la paura e l’odio cieco. Colpisce il fatto che Condè, ottantasettenne e quasi cieca, che già due volte aveva annunciato che i libri pubblicati sarebbero stati gli ultimi, che ha fatto scrivere questo a un’amica dettandolo giorno per giorno, sembri essere più protesa verso il futuro che verso il passato. Il messia contemporaneo che racconta non sembra interessato a rivangare i motivi della miseria, quanto piuttosto a proporre un modo di stare al mondo in cui la lezione secolare è che Dio è amore e l’amore è Dio. Realismo magico e farsa sono i binari su cui scorre una storia che diverte, abbandona e scalda.
Il passato è invece il terreno in cui si radica la storia raccontata da Maisy Card, “Fantasmi di famiglia”, edito da Tlon e tradotto da Clara Nubile. Questo, al contrario dei primi due, è un romanzo di esordio, che attraverso l’esplorazione generazionale di una famiglia giamaicana emigrata negli Stati Uniti (elemento autobiografico), si immerge nella storia coloniale del dominio britannico e della schiavitù. Uno dei capitoli è dedicato all’atto di presa di coscienza di una donna bianca, Debbie. Succede che un test del Dna le rivela di avere antenati neri. Confusa e desiderosa di risposte, scopre che un trisavolo possedeva una piantagione in Giamaica nel 1800, e nel suo diario trova un racconto colmo di brutalità schiavista. In che modo questa conoscenza può portarla a reinterpretare il proprio senso di sé? Debbie si chiede se il male può essere tramandato, se quelle azioni cattive possono aver contaminato le anime dei discendenti del trisavolo e anche la sua. “Adesso rifletteva sul fatto che, in realtà, non aveva mai fatto niente per rendere migliore il mondo. Non era cattiva, ma non era nemmeno particolarmente buona”.
Il tema è che, quasi sempre, il privilegio è un fattore scontato e invisibile e solo volgendo lo sguardo indietro si scorgono le miserie in cui affonda le sue radici. Ecco dunque che i fantasmi di famiglia raccontati da Card, in qualche modo ci riguardano tutti, vivono nelle parole ingombranti e affollate che ancora non sappiamo pronunciare: blackness, black, colored, nigger. Parole di cui la traduttrice Clara Nubile lascia una nota su cui vale la pena soffermarsi: “Mi sono chiesta se si può tradurre a sufficienza black e blackness senza lasciar fuori un singolo lamento, i marchi a fuoco, la discriminazione, il razzismo feroce, la giustizia che non è mai riparativa”. Ma ecco che forse proprio la traduzione di una lingua così mescolata e ibrida come quella caraibica, non fa che contribuire al metissage, in un moto di andata e ritorno che unisce, accorpa, “affamiglia”. So che non esiste questa parola. Ma è il risultato dell’immersione nelle attente ed eclettiche traduzioni di questi tre libri che, nel ricreare l’effetto errore dei dialetti creoli, fanno vivere una lingua nuova. Un primo passo per imparare a dire ciò che non sappiamo dire.
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Titolo: “La sirena di Black Conch”
Autrice: Monique Roffey
Traduzione: Ada Arduini
Editore: Marsilio 2022
Prezzo: 17€
Titolo: “Il Vangelo del Nuovo Mondo”
Autrice: Maryse Condé
Traduzione:Silvia Rogai
Editore: Giunti 2022
Prezzo: 18€
Titolo: “Fantasmi di famiglia”
Autrice: Maisy Card
Traduzione: Clara Nubile
Editore: Tlon 2022
Prezzo: 20€
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