A volte dare un nome alle cose aiuta a capirle meglio e forse, così, a subirne meno le conseguenze. O, al contrario, può dare l’illusione di aver capito tutto e quindi di poter controllare quella situazione. È il caso di una serie di termini inglesi, utilizzati prevalentemente nella letteratura anglosassone, che descrivono comportamenti disfunzionali all’interno delle relazioni.
Il ghosting, per esempio: letteralmente vuol dire “muoversi come un fantasma” ed è la decisione di diventare il ghost di se stessi o meglio sparire letteralmente senza spiegazioni, in maniera improvvisa e violenta. Ma in letteratura troviamo anche il zombieing, l’orbiting e l’haunting. Chiaro per tutti? Le immagini richiamate sono affascinanti, rischiamo però di essere un po’ riduttive e l’anglicismo non aiuta.
Parlando di ghosting ci si riferisce molto spesso alle relazioni sentimentali, in cui di punto in bianco, senza preavviso né spiegazioni, uno dei due partner smette di rispondere a chiamate e messaggi, diventa appunto un fantasma, lasciando l’altro a porsi domande senza risposta. Ovviamente si tratta di situazioni violente e che sono sempre accadute, ma le nostre modalità comunicative (costantemente online, costantemente in contatto su diversi canali) rendono queste sparizioni dal tono decisamente passivo-aggressivo molto più violente e frequenti. È più facile un clic o un messaggio di testo piuttosto che un confronto verbale, ma la nostra “normalità” prevede ormai anche questo: la normalizzazione dell’improvviso disinteresse nei rapporti umani, giustificato nonostante un’assenza razionale di giustificazioni.
Chi sparisce e perché?
Gli esperti dicono che spesso il ghosting segue il cosiddetto love bombing (una fase romantica, intensa, travolgente in cui uno dei due partner, con le caratteristiche del narcisista, “bombarda” l’altro/a con vere e proprie tecniche manipolative di controllo). Il narcisista è spesso protagonista di queste situazioni e a questo proposito vale la pena citare uno studio di qualche anno fa degli psicologi Delroy Paulhus e Kevin Williams (British Columbia University) che parlava di una “Dark Triad“, una triade oscura. Un modo forte per descrivere in una personalità la presenza di tratti di machiavellismo, narcisismo e psicopatia. Una personalità manipolativa, fredda e controllata, che ha anche tratti come il senso di grandiosità, dominanza e superiorità. Sul fronte della psicopatia prevale l’impulsività, poca capacità empatica ed una scarsa presenza di ansia o rimorso.
Proprio queste caratteristiche di personalità vengono spesso associate al ghosting. Lo studio più recente risale al 2 ottobre 2021 e sostiene che le tre personalità si alternano e sovrappongono nella modalità di “agire il ghosting”, all’interno però di un paradigma comportamentale soggetto ad una vera e propria ricerca scientifica. In sostanza: è tutto vero, e non è tutto normale.
Al ghosting possono susseguirsi ulteriori fenomeni, simili a strascichi, da non confondere con modalità di ripensamento da parte del ghoster. Ne elenchiamo tre, i più discussi nel dibattito attuale: zombieing, orbiting e haunting. Per zombieing (quindi, comportarsi come uno zombie e letteralmente uscire dalla tomba), si intende quando il ghoster riappare con un messaggio o chiamata come se niente fosse. L’obiettivo non è ristabilire un contatto, ma soddisfare un momentaneo bisogno, dopo il quale il ghoster tornerà a sparire. L’orbiting è invece proprio “orbitare” intorno alla preda, prevalentemente con like o visualizzazioni di post/stories dimostrando un finto interesse, che è invece necessità di controllo e onnipotenza. L’haunting si posiziona come una versione estrema dell’orbiting, che in casi gravi può sfociare in stalking e invio di materiale non desiderato alla vittima. Nessuna di queste modalità permette alla persona coinvolta di comprendere o elaborare il trauma di fine relazione.
E chi lo subisce?
Figlio della cultura del web dei primi anni duemila, il ghosting è la traslazione antropologica della sparizione di un utente virtuale. Bloccare i contatti, interrompere la comunicazione, ignorare la parte coinvolta, commentare e sparire, sono tutti atteggiamenti che suonano ormai famigliari. La facilità del praticare ghosting non corrisponde però a quella esercitata a sua volta da chi lo subisce per metabolizzare ed elaborare il dolore della “perdita”.
La gestione della sofferenza causata da un ghoster è spesso infatti motivo di supporto psicologico, dove la donna è quasi sempre portata a chiedersi quale fatale errore possa aver mai fatto per allontanare il partner. La costante sensazione, o forse anche generazionale sensazione di non sentirsi mai abbastanza, deve ufficialmente finire. Consapevole o no, il partner che scompare attua una vera e propria strategia che gli permette di sfuggire a qualsiasi coinvolgimento emotivo rispetto alla sua scelta di terminare il rapporto. Ricordiamo che l’azione è unilaterale, pertanto quella della donna può essere solo ed esclusivamente una reazione.
L’associazione del dolore ad un fenomeno “inspiegabile” intensifica il legame della vittima con il ghoster, creando inevitabilmente un tipo di dipendenza emotiva che continua anche dopo la chiusura del rapporto. Il ghoster non fornisce quasi mai spiegazioni, spesso ricorrendo a metodi drastici come bloccare qualsiasi contatto. Parliamo dei social tra cui Whatsapp, Instagram e Facebook. I nuovi non luoghi della comunicazione favoriscono e facilitano la strategia del ghoster, portando la vittima ad uno stato confusionale.
La fine di una relazione
Molti potrebbero dire, come sempre nel caso di violenza psicologica, che la donna dovrebbe saper riconoscere i segnali di comportamento disfunzionale e prendere le dovute distanze. Questo è possibile, ma non sempre. Le ragioni di un ghoster possono variare a seconda dei casi, ne citiamo alcune analizzate in letteratura: volontà di non soffrire e far soffrire, mancanza di attenzioni durante l’infanzia, mancanza di attrazione improvvisa, sensazione di minaccia al proprio status (Baxter, 1985; Zimmerman, 2009).
La fine di una relazione è normale, ma in condizioni estreme può causare tristezza e rabbia accompagnate da disturbi fisici come insonnia, perdita di appetito e ansia da stress (Morris & Reiber, 2011). Tra i consigli degli esperti in caso di ghosting, c’è quello di praticare meditazione mindfulness, evitare l’isolamento e chiedere aiuto ad un professionista per elaborare l’episodio a cui non riusciamo a trovare spiegazione. Darsi la colpa può dare vita ad un vero e proprio episodio depressivo da cui è complicato uscire.
Nonostante la ripresa di psicologi e ricercatori italiani dei vari studi, la letteratura scientifica presente sul ghosting è prevalentemente straniera. L’apporto delle università inglesi e americane (e non solo) è un sintomo importante relativamente la necessità di una maggiore attenzione antropologica alle relazioni disfunzionali. Non è nella nostra testa, questo è poco ma sicuro. Quel dolore, quella sensazione di vuoto, quell’incapacità di abbracciare e comprendere la perdita, sono reali. Non c’è forse niente di più reale di ciò che ci fa soffrire.
In una società dove l’ansia, la depressione e il bisogno di supporto psicologico sono ancora tabù, non ci si può sorprendere che sia più facile nascondersi dietro una parola anglosassone. Normalizzare l’interruzione dei rapporti umani attraverso metodi non comunicativi è solo l’inizio di un assetto comportamentale dove prendersi le proprie responsabilità diventa un lusso. Il commento libero su Instagram e il blocco del contatto su Whatsapp non sono cose separate: una società deresponsabilizzata è una società dove l’empatia non manca solo ai narcisisti, ma a molte più persone di quante siamo disposti a credere.
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