Carlotta Vagnoli: vedere, riconoscere e rifiutare la violenza sulle donne

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Ci sono alcune battaglie che richiedono uno sforzo costante, un’attenzione che va oltre gli assetti culturali provando a decostruirli. Parlare di violenza di genere è la battaglia di Carlotta Vagnoli, attivista, content creator, ex columnist di GQ e Playboy. Lo ha fatto in un libro che si intitola “Maledetta Sfortuna” (Fabbri Editore), lo fa ancora con il nuovo libro “Poverine” (Einaudi), che si concentra su come i media raccontano la violenza sulle donne. Vedere, riconoscere, e rifiutare la violenza di genere: questo il mantra che scorre nelle pagine di Vagnoli, nelle stories su Instagram e all’interno dei numerosi dibattiti che accende con la sua voce. Partendo dalle origini della violenza, Carlotta Vagnoli analizza quelli che sono gli stereotipi di genere, la necessità di educare al consenso e tutto ciò che normalizza la violenza in termini di linguaggio. “La vera rivoluzione contro la violenza è la cultura”, scrive.

Il tuo nome viene associato a una “rivoluzione” culturale volta a smascherare le radici della violenza di genere, e non solo. Alla parola scritta nero su bianco, affianchi una voce netta senza mezzi termini, capace di smuovere intere platee parlando di violenza sotto ogni suo aspetto. Cosa sta portando tutto questo nella tua vita e nel sociale?

“Maledetta Sfortuna” non è solo per persone che fanno parte della bolla del femminismo, nella mia analisi riparto completamente da zero. Il target è dai sedici anni in poi, si rivolge alle stesse persone a cui vado a fare lezione e formazione nelle scuole, nei collettivi, nelle associazioni. Ho un pubblico molto variegato che nell’ultimo anno è cresciuto tantissimo, ci tenevo a partire dal concetto basilare della stereotipizzazione di genere: concetti primari che portano alla violenza. Volevo che il libro fosse qualcosa di fluido e accessibile. E’ stato recepito bene nella semplicità che mi aspettavo, e forse la cosa mi è un po’ sfuggita di mano, mi sono ritrovata in un turbine pazzesco.

Per quanto riguarda il mio approccio, i fronzoli non sono mai ben voluti. Siamo stati abituati e abituate a sentirci parlare della violenza di genere con quell’accezione di “poverine”, poverine noi che subiamo (poverine, come il titolo del nuovo libro, ndr). Ci vuole contestualizzazione. Le persone a cui parlo sono principalmente quelle della generazione X, la più attiva che potessi immaginare dopo noi Millennial. C’è fame di queste tematiche, si chiedono da dove vengono i retaggi culturali nei quali siamo immersi. Mi è facile parlare con loro probabilmente anche per via del mio timbro, del mio linguaggio. Dalla generazione X viene invece recepito aggressivo, in realtà vuole essere preciso e lascio poco spazio a sentimentalismi. Mi piace parlare con i giovani, le persone sono portate a raccontarmi la loro esperienza, si sentono accolte, capite, comprese senza quella vena di blaming o compassione che spesso si trova all’esterno dei circuiti del femminismo. Si crea qualcosa di intergenerazionale, mi sono trovata bene a parlare di questo con Daria Bignardi, che mi ha presentato al Salone del Libro di Torino. Diciamo che, forse, con Maledetta Sfortuna stiamo creando un ponte intergenerazionale per affrontare sotto più aspetti la violenza di genere. 

Foto di Pietro Baroni

Foto di Pietro Baroni

Si parla ancora marginalmente di educazione sessuale all’interno delle scuole. In Maledetta Sfortuna scrivi “Non sono le nuove generazioni a essere malate, marce, ingestibili: sono i nostri metodi educativi che non sono abbastanza inclusivi e adatti a saper comprendere, leggere e accogliere la contemporaneità”. Da dove dovremmo partire, o ripartire?

Faccio lezioni ormai da quattro anni nelle scuole, da gennaio ricomincerò a girare per i poli in Italia e le facce che vedo sono sempre le stesse. Questo avviene perché parliamo di un’attività che non è ancora ben accolta nelle scuole medie e superiori. È un peccato perché sul territorio abbiamo tantissime associazioni preparate per fare educazione sessuale, al consenso, alla parità, per parlare delle tematiche legate alla comunità Lgbt+ o al razzismo. Abbiamo tante risorse che sono fortemente importanti, il Ministero dell’Istruzione non ha mai pensato che questi fossero temi necessari da inserire nei piani dell’offerta formativa nazionale, quindi si cerca di portarli in modo trasversale, non ufficiale, nelle assemblee o nelle lezioni a più riprese. La necessità sarebbe sicuramente di avere dei corsi che partono dalle scuole materne, parlando proprio di educazione al consenso. La possono fare i bambini, come fanno per esempio in America. Giusto per capire qual è il senso e i confini del proprio corpo, della propria volontà, il desiderio di fare o non fare qualcosa, essere o non essere toccati. Come spiego molto bene anche nel libro, vanno riconsiderati i testi didattici delle scuole elementari e materne. Sono pieni di stereotipi che peggiorano la situazione. La scuola ha paura di prendere una posizione su determinati temi, ma non è una questione di posizioni, parliamo di diritti civili non di argomenti da campagna elettorale.

Nel libro hai ricostruito la piramide della Rape Culture analizzando i fenomeni che portano alla normalizzazione della violenza di genere: Catcalling, Slut shaming, Victim blaming e altri. Molti non hanno una traduzione in italiano, questo ci porta a non comprenderli o creare pregiudizi sul tema?

E’ una questione a più livelli, la prima è che a livello accademico non abbiamo ancora importato i gender studies in Italia. Da quest’anno le università dovranno fornire almeno una classe di gender studies in ogni ateneo. Ma non abbiamo ancora un livello accademico che permetta la traduzione e l’inserimento di questa terminologia nelle materie italiane. Questo può aver creato e creare tutt’ora distacco. Ma come dico sempre, siamo riusciti a imparare parole come “fair play”, o anche altre terminologie inglesi relative al calcio. Credo ci sia più una resistenza nei confronti di termini capaci di mettere in discussione alcuni privilegi da parte di determinate categorie. Certo, se tu capisci il significato di Catcalling o Gener violence, o Rape culture, allora stai anche capendo che la responsabilità è quella maschile. Ecco, questo è un po’ difficile da digerire. Dobbiamo imparare a riscrivere un linguaggio comune, che sia partendo dagli anglicismi, che sia usare un linguaggio emotivo e relazionale nuovo in italiano, non importa. Importerebbe un passo in avanti, che io non vedo, in primis nell’editoria. Sono tutti degli escamotage retorici: vi abbiamo dato le chiavi di lettura e non volete usarle, quindi non vi interessa risolvere la problematica della violenza di genere.

Nel nostro quotidiano assistiamo ad una sorta di interiorizzazione del linguaggio sessista, spesso nemmeno noi donne ci rendiamo conto di quanto consideriamo “normale” un comportamento che invece è all’origine di violenza o discriminazione, vedi il Cat calling. Siamo o no più consapevoli?

In realtà è sempre peggio perché cominciamo a rendercene conto. Ora abbiamo gli strumenti per poterlo analizzare, riconoscere. Prendiamo ad esempio la rassegna sessista della settimana di Michela Murgia, io invece facevo quella che si chiamava la “rassegna stanca”. Quello che troviamo nel quotidiano, o sui giornali, diventa sempre più semplice da riconoscere. Citiamo, come dico nel libro, la famosa battuta “come sei bella ti stuprerei”, a dimostrazione di come lo stupro sia diventato un termine di paragone per farti capire che sei affascinante: è stato normalizzato. Questo linguaggio – e non linguaggio – che ci viene imposto, sono delle costanti. Insieme alla presa di coscienza di questi meccanismi c’è una maggiore resistenza rispetto al ridefinire un nuovo linguaggio scevro di stereotipizzazione. La più grande banalità del male nasce proprio dalle parole, dagli slur sessisti, razzisti, omofobi, sono sempre state le parole a rimetterci al nostro posto. Non dobbiamo liberarcene noi, chi lo usa deve smettere, o va depotenziato. Le fonti secondarie, in particolare i giornali, detengono un potere immenso e devono approfondire. Pensiamo a corsi di formazione nelle redazioni, nelle aziende. Le soluzioni ci sono, usiamole.

Nel tuo libro spieghi cosa sono gli stereotipi di genere indicandoli come l’origine della violenza di genere, e recentemente hai parlato nel tuo TEDx Brianza del ruolo passivo della donna nella nostra cultura. Quanto è radicato il retaggio patriarcale nella percezione femminile e quali sono le annesse conseguenze di questa sovrastruttura?

La passività è un discorso ampio, radicato. Quando da ragazzina mi facevano Catcalling io pensavo “vedi, sono carina oggi”. Questa passività l’abbiamo introiettata perfettamente, siamo state addomesticate dalla cultura patriarcale. Come allora stesso modo sono stati educati i maschi alfa: virili o niente. Quindi è complesso cercare di smantellare delle condizioni con cui siamo cresciute.

Anche nel TED lo spiego: è proprio una “battuta di caccia al cinghiale”. C’è la “preda”, il “cacciatore”, pensiamoci. Inoltre da sempre abbiniamo la sfera sessuale a quella sentimentale, che prevede spesso il soccombere di una delle due parti, che è da sempre quella femminile. La femmina è preda non è cacciatrice. Quando è cacciatrice di solito è inserita all’interno di un contesto pornografico nelle vesti di donna matura. Noi siamo cresciuti con l’immaginario del porno e tutt’ora le generazioni più giovani fanno altrettanto. L’educazione sessuale e al linguaggio non esiste. Questi stereotipi vengono mantenuti all’interno dei giornali di settore. Infatti, quando facevo la sex columnist per una rivista maschile mi sentivo di portare uno scambio, di supportare una decostruzione degli stereotipi di genere, una contaminazione. Questo confronto può diventare molto utile, da sempre le donne pensano di dover fare a prima mossa, di dover atteggiarsi ad un determinato ruolo passivo che si ritrova in ogni aspetto della relazione. Questo preclude la cosa più importante, ovvero l’individualità del singolo, che ha fatto soccombere le proprie caratteristiche rispetto alla norma della società, succube del binarismo e stereotipizzata.

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