Ritornare a guardare il mondo, il Festival della Fotografia Etica di Lodi

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Mezzadro, West Memphis, Arkansas, 1971. © Eugene Richards

Il grande fotogiornalismo internazionale ritorna in scena a Lodi con la dodicesima edizione del festival della Fotografia Etica (visitabile fino al 24 ottobre), un appuntamento da non perdere con storie vere, che ci riguardano, provenienti da tutto il mondo ma anche da dietro casa nostra.

L’aggettivo vero è impegnativo, ma dal 2010 è questa la sfida del festival, continuamente riaffermata e, fino a oggi, vinta: il reportage, il giornalismo attraverso la fotografia, l’esercizio tenace e paziente, sempre difficile e spesso osteggiato, di portare alla luce ciò che è nascosto, metterlo sotto i nostri occhi, abbagliati da troppe informazioni, perché abbiamo il diritto ma anche il dovere di conoscere quello che accade e che incide sulle nostre esistenze, spesso tanto più quanto meno ne siamo consapevoli.

Mi piace iniziare dall’ex chiesa dell’Angelo con The day I was born, la vita di sei afroamericani nel profondo sud degli States con cui il grande fotografo texano Eugene Richards ci trasporta tra le sconfinate pianure dell’Arkansas nel grande delta del Mississippi. È un servizio eccezionale, disposto su un’arcata di quasi 50 anni, dalle prime foto degli anni ’70, in un bianco e nero di potente rigore visivo e morale degno dei romanzi di Faulkner, che raffigurano la fatale accettazione della durezza della vita da parte dei braccianti al lavoro nei campi di cotone, tra baracche di lamiera per alloggio e povere chiese di assi inchiodate, a quelle a colori del 2010 e 2019, nelle quali – scomparse le baracche, svuotati di persone i campi, ovunque fumi e rumori dell’agricoltura meccanizzata dei nostri giorni – si rende percepibile un senso di desolazione: sono immagini che, smarrito il centro, perduta la razionale geometria del reportage di un tempo, cercano affannosamente di vedere di più e più vicino, facendoci sentire il vuoto dell’assenza e riflettendo al tempo stesso lo sbigottimento del fotografo, testimone del profondo mutamento avvenuto negli anni, specchio della storia del paese.

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Il funerale delle vittime del massacro di Tamaulipas, Guatemala. ©Nicolò Filippo Rosso

Nel centrale palazzo Barni possiamo scoprire innanzi tutto il talento del giovane piemontese Nicolò Filippo Rosso, il primo a vincere entrambe le sezioni Master e Short Story del concorso internazionale World Report Award Documenting Humanity. Residente dal 2016 a Bogotà, con Exodus racconta storie di migrazione che si intrecciano nel continente sudamericano, principalmente dal disastrato Venezuela verso Colombia e Perù e dal Messico verso gli Stati Uniti, facendo emergere attraverso un bianco e nero intimo, accurato e mai retorico la fragilità delle esistenze di questi viaggiatori della speranza, con un’attenzione particolare alle categorie più esposte al rischio: bambini, donne incinte, anziani, su cui posa uno sguardo rispettoso, profondamente umano, che non rende mai oggetti i soggetti delle sue foto. Anche nella short story Consumed by the grief, resoconto dei funerali e dell’omaggio della comunità guatemalteca di Comancillo a 13 compaesani, uccisi probabilmente dalla polizia messicana prima che potessero attraversare la frontiera con il Texas, Rosso sa raccontare con pudore e senso della misura, da testimone fedele e partecipe. Proprio in questi giorni il fotografo è stato insignito di un altro importante riconoscimento, il prestigioso “Eugene Smith Fund Grant” per progetti a lungo termine che si muovano nello spirito della fotografia umanistica.

A palazzo Barni sono da ricordare ancora tre servizi: il reportage di Daniele Vita Bathers su dieci ragazzi catanesi tra i 10 e i 14 anni provenienti dai quartieri più difficili durante l’estate 2020, quando, finito il lockdown, hanno potuto di nuovo uscire e ricominciare la vita sregolata e libera di gruppo, fatta di bagni di mare, fumo, droga, primi amori ed eccessi. Ragazzi e ragazze si abbandonano con naturalezza all’occhio della camera, segno che Di Vita ha saputo creare con loro un rapporto di fiducia: le immagini sembrano farci vivere quella breve estate dall’interno, dando voce e sguardo, senza giudizio, al punto di vista dei giovani.

Il polacco Jędrzej Nowicki in Scars (Cicatrici) documenta invece la dura repressione delle proteste antigovernative in Bielorussia da parte del presidente Alexander Lukashenko, al potere da 26 anni: alternando con sensibilità riprese cittadine delle manifestazioni e degli scontri con close up ravvicinati sulle ferite e cicatrici lasciate sui manifestanti, Nowicki con intelligenza e talento trasforma i segni sul corpo in evocazioni simboliche delle cicatrici emotive impresse nello spirito del popolo bielorusso.

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Autoritratto con Sima, durante un incontro dopo due settimane di quarantena volontaria. Tabriz, Iran, 24 aprile 2020. ©Farshid Tighehsaz

Infine The new name of death dell’iraniano Farshid Tighehsaz spinge ancora più in là la capacità del linguaggio fotogiornalistico, per natura legato alla documentazione del reale, di mettere in scena un onirico teatro di ombre, echi, allucinazioni e incubi: con un bianco e nero inquieto, visionario e malsano, tra nebbie, neve e incerti riflessi su specchi appannati, Farshid svela il terribile urto psicologico che l’epidemia di COVID 19 sta lasciando nel popolo iraniano.

La ricchezza e l’alta qualità dei lavori esposti mette in serio imbarazzo chi deve decidere di cosa parlare e cosa omettere, ma certo i reportages di Palazzo Modignani vincitori della open call Reset sono indimenticabili, a partire da La terra dei buchi del giovane brianzolo Mattia Marzorati, un’inchiesta che rivela il terribile degrado ambientale della provincia di Brescia, dove l’eccezionale numero di cave (i buchi del titolo), inceneritori e discariche hanno facilitato l’arrivo delle ecomafie e il conseguente massiccio interramento di rifiuti tossici ha determinato un’incidenza di tumori e altre patologie più alta che in qualunque altra zona d’Italia. I colori limpidi e le inquadrature precise delle foto (realizzate interamente in pellicola) di Marzorati passano dalle persone colpite nella salute, propria o dei loro cari, a riprese panoramiche che mostrano, con la chirurgica e silenziosa chiarezza delle immagini, la disastrata morfologia del territorio e alcune delle industrie coinvolte, come la Caffaro, la cui vicenda “è ad oggi considerata uno dei peggiori disastri ambientali della storia italiana”.

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Manifesto di Bill Gates come Anticristo bruciato in una manifestazione, Firenze, 20 giugno 2020. ©Francesco Andreoli

(Un)vaxxed del ventiquattrenne carpigiano Francesco Andreoli affronta con coraggio e intelligenza il tema delicatissimo dei vaccini. Fin dal titolo, “(non) vaccinati” anziché no-vax o pro-vax, Andreoli dichiara il suo metodo giornalistico: non partire da un’idea preconcetta, ma incontrare le persone, studiare e approfondire i singoli casi per far comprendere le motivazioni plausibili come le irragionevolezze indifendibili dietro ad alcune scelte, non tacendo i dubbi, gli aspetti che richiedono ulteriori approfondimenti, i coni d’ombra che dovranno essere dissipati.

This land is my land infine è uno dei lavori più interessanti del festival, dedicato all’epidemia di xylella fastidiosa che sta mettendo in ginocchio la coltivazione degli olivi in Puglia. Il duo Jean-Marc Caimi e Valentina Piccinni mescola diversi registri visivi dando corpo a una narrazione stilisticamente varia e ricchissima di stimoli, nella quale scorrono potenti foto in bianco e nero dei maestosi olivi centenari ridotti a larve disseccate e dei contadini che hanno dedicato la vita alle loro piante, immagini a colori degli insetti vettori della malattia e dell’attività di ricerca di una cura nei laboratori, antiche foto e vecchi diari recuperati dalle famiglie contadine per testimoniare il legame viscerale tra la gente e i suoi olivi e splendidi dittici come quello, colmo di poesia, qui accanto, che accosta il corpo di un bambino in braccio alla mamma e l’innesto di un germoglio di olivo sano nel tronco di un albero malato. È una legge di natura che ci guida a cercare la rigenerazione nelle giovani viti.

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Monica e suo figlio Rocco, di una famiglia di coltivatori leccesi duramente colpiti dall’epidemia. / Germogli di alberi di olivo spontaneo resilienti alla Xylella innestati in alberi pluricentenari. © Jean-Marc Caimmi / © Valentina Piccinni

I servizi dei fotografi di AFP (Agence France-Presse), una delle maggiori agenzie giornalistiche mondiali, nei chiostri del palazzo della Provincia mostrano in coinvolgenti sequenze di immagini il travagliato ultimo biennio degli Stati Uniti, spaccati in due fazioni contrapposte come mai nella loro storia (American Democracy tested a divided nation) e i Dieci anni di conflitto in Siria, con i contributi di diversi giovani siriani, diventati negli anni fotografi professionisti dopo aver raccolto la sfida di raccontare il proprio paese dall’interno, reagendo al congiunto embargo informativo imposto sia dal governo di Bashar al-Assad che dalle milizie del Governo Islamico.

Io ero, sono, sarò di Silvia Amodio nell’elegante chiostro dell’ospedale Paolo Gorini affronta il tema del tumore al seno con rinfrancante positività: la galleria dei grandi e luminosi ritratti a figura intera di donne che hanno affrontato e stanno affrontando la malattia, avvolte in veli bianchi che ne coprono in parte la sofferta nudità, fanno pensare ad abiti nuziali e, assieme ai testi che ne raccontano le storie senza ipocrite reticenze, in questo dialogo tutto al femminile, comunicano oltre al dolore speranza e, talvolta, una inaspettata gioia. Una lezione importante.

Concludiamo il nostro tour nello spazio Outdoor ai giardini di viale 4 novembre con due mostre rigeneranti: A daring giraffe rescue, un appassionato servizio della grande fotografa americana Ami Vitale (qui la mia intervista di qualche tempo fa) sull’intervento di salvataggio di 5 giraffe di Rothschild (sottospecie a rischio estinzione), rimaste bloccate a Longicharo in Kenya in un’isola creata da piogge eccezionali sulle rive del lago Baringo. Il trasporto di questi elegantissimi e fragili mammiferi (la specie più alta al mondo), sedati e bendati, su grandi chiatte e la loro restituzione alla libertà è celebrato in foto di luminosa bellezza sullo sfondo del paesaggio africano.

Vlaardingen, Netherlands April 17 2020 Ollie perches on a dirty plate while I’m filling the dishwasher while Dollie watches from the outside. Ollie takes notice of every move I make and as soon as he sees an opportunity he’s back on the kitchen counter. PANDEMIC PIGEONS 4/10

Ollie si appollaia su un piatto sporco mentre riempio la lavastoviglie, mentre Dollie guarda da fuori. Ollie prende nota di ogni mia mossa e appena vede un’opportunità è di nuovo sul bancone della cucina. Vlaardingen, 17 aprile 2020. ©Jasper Doest

Pandemic pidgeons – A love story dell’olandese Jasper Doest è invece il sorprendente racconto dell’amicizia nata tra la sua famiglia, bloccata in casa dal lockdown della primavera 2020, e Ollie e Dollie, una coppia di piccioni selvatici che diventano una compagnia anarchica, rumorosa e divertentissima in quel periodo altrimenti triste. I piccioni hanno una pessima reputazione oggi, considerati topi dell’aria e portatori di malattie, ma le foto di Doest, spesso scattate con camere fisse dislocate nella casa, luminose, dai colori cangianti e dolcissimi, raccontano la curiosità, intelligenza ed empatia che questi uccelli dimostrano per i loro amici umani, abituandosi a frequentarne la casa e a condividerne gli spazi, oltre a farne vedere la bellezza del piumaggio e del portamento di cui di solito non ci curiamo.

Attraverso il sorriso, vediamo sotto i nostri occhi una fraternità tra uomini e animali che costituisce la frontiera cui dobbiamo tendere sempre più.

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