“L’arte ti costringe a confrontarti con il tuo lato oscuro. […] non è una faccenda consolatoria […] è un flash, una visione, un qualche cosa di magico e mostruoso che ti appare al momento e ti lacera. È il meraviglioso e il mostruoso insieme. […] È come uno specchio.” “Gli artisti sono aggrediti dalle immagini che escono dall’ombra o entrano in essa; essi catturano l’ombra […] E tuttavia l’ombra resta inaccessibile perché noi siamo l’ombra, giacché siamo fondamentalmente quanto ci manca.”
Come una chiave segreta queste frasi ci introducono all’avventura culturale e umana di Lea Vergine, una delle più importanti critiche e scrittrici d’arte degli ultimi anni, portata via dal COVID il 20 ottobre 2020 a 84 anni, il giorno dopo il suo storico compagno e secondo marito, Enzo Mari, con cui formò una solidissima coppia di forti e difficili personalità creative, capaci di restare accanto per più di 50 anni.
Due libri intervista possono guidarci a conoscerne l’affascinante personalità: Necessario è solo il superfluo. Intervista a Lea Vergine di Stefania Gaudiosi, (postmedia books, Roma 2019, rielaborazione di una video intervista per la serie di Artribune “L’arte è un delfino”), agile introduzione al suo pensiero e L’arte non è faccenda di persone perbene. (Conversazione con Chiara Gatti, Rizzoli, Milano 2016), da cui è tratta la citazione d’apertura, dove Lea Vergine ripercorre la sua vita, partendo da un’infanzia che parrebbe uscita da un romanzo di Verga o Emile Zola.
Nata Buoncristiano – Vergine è il nome del primo marito, lo psicologo Adamo Vergine, che sposò giovanissima -, dalla relazione tra un giovane di buona famiglia e una ragazza del popolo, costretti dal padre di lui a sposarsi, visse da bambina con il padre e i nonni, mentre la madre e gli altri due figli della coppia, morti in tenera età, abitavano l’appartamento sull’altro lato del pianerottolo; i due monconi famigliari si riunivano solamente in occasione di visite, per inscenare, tutti assieme a tavola, la recita della famiglia felice. Nella conversazione con Chiara Gatti lascia affiorare, con reticente pudore, i ricordi dell’infanzia e giovinezza in quella crudele famiglia, di cui confessa di riuscire a parlare (parzialmente) solo da pochi anni: additata come diversa (“ma non ce l’ha una madre quella?” sussurravano quando la nonna paterna andava a prenderla a scuola), ritiene di essere stata salvata dalla letteratura, mondo di immaginazione in cui trovare riparo da una quotidianità perturbata dagli aggressivi disturbi di mente della madre, rimanendo però ferita a morte per la vita, come il celebre romanzo dello scrittore partenopeo Raffaele La Capria, “il grande interprete della città”.
Ne seguiamo poi l’adolescenza, sullo sfondo di una Napoli amata e odiata con uguale e controversa passione -amata e odiata come sua madre -, l’abbandono dell’università dopo un solo esame per dedicarsi all’arte da splendida autodidatta, la formazione attraverso la frequentazione di intellettuali, artisti e delle poche gallerie di arte contemporanea, innestando sul ricco terreno delle eterogenee letture giovanili riviste e libri che raccontano l’arte del presente. Inizia la sua collaborazione con la più aperta galleria della città, “Il Centro”, dove porta gli artisti d’avanguardia come Lucio Fontana: ma Napoli non è matura, sberleffi e irrisioni da parte della stampa e di una borghesia dai gusti attardati fanno maturare la sofferta decisione di partire per Roma. Il soggiorno breve e intenso nella capitale, con l’assidua frequentazione di Giulio Carlo Argan e del cenacolo culturale raccolto attorno alla Galleria Nazionale di Arte Moderna diretta da Palma Bucarelli, è solo una tappa intermedia, prima del definitivo trasferimento a Milano nel ’66, dove si afferma definitivamente come una delle maggiori critiche d’arte dedite al contemporaneo.
Corpo e donne sono i temi cui è maggiormente legato il nome di Lea Vergine, autrice di due “testi sacri”, che hanno segnato una svolta nella storia della cultura prima ancora che dell’arte, restando a tutt’oggi punti di riferimento imprescindibili.
Nel 1974 Il Corpo come linguaggio. (La “Body-art” e storie simili) (Giampaolo Prearo Editore; nuova edizione aggiornata, Skira 2000) si addentra con intelligenza pionieristica in un territorio espressivo nuovo, poco esplorato, impervio e spesso respingente, portando sotto la luce dei riflettori un ricco ed eterogeneo gruppo di artisti che fanno del corpo il proprio strumento e palcoscenico, nel tentativo, generosamente utopistico, ora ingenuo ora disperato, di abbattere ogni separazione tra arte e vita. Sono convinto che Lea Vergine fosse spinta dal suo vissuto personale verso queste esperienze spesso estreme, che si fanno volta a volta rito e ossessione, patologia e terapia, provocazione e incanto, violenza e tenerezza, ciò nonostante la passione che anima i suoi scritti è sempre fondata su una solida e preziosa base di fonti e documenti: il libro riporta per esempio le dichiarazioni degli artisti (che oggi si è soliti chiamare statement) sulle ragioni del proprio lavoro, ma l’autrice non si limita a un notarile inventario di intenzioni, descrive con maestria le performances e ne investiga con esprit de finesse i legami profondi con la società, la sua cultura e il suo immaginario.
Nel febbraio del 1980 Lea Vergine cura per Palazzo Reale a Milano L’altra metà dell’avanguardia 1910-1940. Pittrici e scultrici nei movimenti delle avanguardie storiche, (Mazzotta, Milano 1980; nuova edizione Il Saggiatore 2005), una mostra, e il relativo fondamentale catalogo, per cui possiamo tranquillamente spendere l’aggettivo epocale: una ricognizione ampia, accurata e rigorosa che restituisce la giusta importanza al lavoro di un folto gruppo di artiste donne, il cui ruolo “era caduto al di fuori della memoria storica”. L’esposizione, allestita successivamente anche a Roma e Stoccolma, nasce in polemica con numerose iniziative simili che, “in nome di una malintesa militanza politica su tematiche alla moda”, si traducevano in “censimenti miserabilistici” di donne che avessero a che fare, non importava come, con l’arte, e si prefigge di far comprendere la “forza squassante” delle opere “dell’altra metà dell’avanguardia”, “a significare il vigore di una posizione rivoluzionaria e non rivoltosa che ha innovato, con pienezza di autocoscienza.”
Nella splendida introduzione la studiosa scrive parole da meditare anche oggi, quando parlare di donne e arte (come di donne e qualsiasi altro argomento) è diventato di moda, e delle mode seguite acriticamente per essere à la page è sempre saggio diffidare.: “Non ho mai inteso dimostrare che ci sia stata una ricerca formale delle artiste da contrapporsi a quella degli artisti, piuttosto che, a parità di livello qualitativo, non riesco a vedere diversità alcuna.”
E prosegue affermando: “[…] ho cominciato questo lavoro per far giustizia, per togliere le orchidee dall’obitorio e mi si sono spalancati davanti gli inferi. Euridice senza Orfeo, ho incontrato fantasmi […] eppure l’amo questo continente abbandonato, questa enorme provincia d’ingegni.” Illustra poi il lungo lavoro di studio e di ricerca intrapreso assieme a un manipolo di agguerriti collaboratori, giacché “moltissime […] opere giacevano dimenticate come reperti archeologici”, sepolte in archivi ignoti, talvolta rinvenute dopo lunghi inseguimenti tra parenti, collezionisti e mercanti, e le cure necessarie per ricostruire in modo attendibile le vicende biografiche stesse “di molte autrici mai lette o trattate in quanto persone”, facendo giustizia di racconti inventati e dicerie di seconda mano, intervistando sovente le dirette interessate o coloro che, a vario titolo, le accompagnarono per qualche tratto sulle strade della vita.
Ho voluto riportare alcuni brani di Lea Vergine per spiegare perché, a inizio pezzo, l’abbia definita, oltre che critica, scrittrice d’arte: l’intensità coinvolgente del suo stile non deriva da autocompiacimento, è invece il mezzo adeguato per permettere al lettore di partecipare a un cammino di conoscenza e di cogliere la complessità di esperienze e significati che l’arte racchiude in sé. La sua non è mai una prosa “da testimone imparziale e algido”, vi è sempre la volontà militante di prendere posizione, con consapevolezza: “non ho mai […] finto modestia: chi affronta qualcosa di enigmatico come l’arte non può permettersi di essere modesto. Ma neanche può permettersi di non essere umile.”
Vi sarebbero molti altri libri, mostre e ricerche da ricordare per tratteggiare un profilo esaustivo di Lea Vergine, dalla rassegna del 1983 su L’ultima avanguardia. Arte programmata e cinetica 1953/1963. (Mazzotta, Milano 1983) a quella per Palazzo delle Papesse a Siena su un tema inconsueto e affascinante come l’ombra (D’ombra, Silvana editoriale, Milano 2006), simbolo del lato segreto ed enigmatico della nostra personalità, fino alla più recente Un altro tempo (per il Mart di Rovereto, 2013) sul circolo di Bloomsbury, ma questo scritto è già piuttosto lungo: spero di avere fornito spunti che invoglino ad approfondire la figura di una donna e studiosa di cui si sentirà la mancanza.
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