Da Donna Ferrato a Vogue, fotografia e violenza contro le donne

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Il 25 novembre, giornata nazionale contro la violenza sulle donne, è stata una preziosa occasione per interrogarsi su come l’argomento sia stato trattato in fotografia. Il mio interesse non era rivolto alla situazione attuale: oggi infatti diversi fotografi scelgono di dedicarsi a questo tema, raccontandolo da vari punti di vista e in diversi contesti. Ma nel passato, anche recente, la fotografia se ne è occupata? E, se sì, quando e in che modo? Sono state queste domande a guidarmi nella ricerca, che ha portato alla diretta Instagram del 3 dicembre.

Non pretendo certo di esaurire un argomento di tale portata, ho preferito concentrarmi su pochi casi emblematici, a partire da un’intuizione di Susan Sontag, grande intellettuale e autrice di testi fondamentali per la comprensione della fotografia e del suo ruolo nella nostra cultura e società. La Sontag nel primo saggio della celebre raccolta On photography del 1977 (traduzione italiana: Sulla fotografia. Realtà e immagine nella nostra società, Einaudi, Torino 1994) scrive: “Non può esistere testimonianza, fotografica o no, di un evento che non abbia già avuto un nome e una definizione. E non è mai la documentazione fotografica che può costruire – o più esattamente identificare – gli eventi; essa da sempre il proprio contributo solo quando l’evento ha già un nome. Ciò che determina la possibilità di un effetto morale delle fotografie è l’esistenza di una pertinente coscienza politica.

Oggi noi siamo consapevoli di questo specifico problema e, finalmente, abbiamo iniziato ad agire concretamente per affrontarlo ma, prima, come si poteva fotografare un fenomeno non ancora individuato, senza fisionomia riconoscibile? Il problema non aveva un nome, quindi non era visibile, non esisteva: la fotografia, come qualsiasi altra espressione comunicativa e artistica, esiste solo in una comunità e può avere su questa una ricaduta se la società è in grado di ascoltarne la voce e accoglierne i racconti.

La figura più importante nella storia della fotografia dedicata alla violenza contro le donne è certamente l’americana Donna Ferrato (Waltham, Massachusetts, 5 giugno 1949) che, quasi casualmente, si imbatté in questo argomento sulla fine degli anni ’70, mentre si interessava ai sex club e alle coppie scambiste, gli swingers. Nel 1982 la fotografa era ospite di una coppia nella loro casa del New Jersey e, mentre si trovava con loro nel bagno, assistette a una lite durante la quale il marito colpì ripetutamente sua moglie. Donna Ferrato, quasi per un riflesso condizionato, scattò diverse foto, ma quella sera si verificò anche un clic di altra natura, nella sua testa: la fotografa sentì che quel tema, incontrato per caso, era diventato il suo ed era suo dovere testimoniare quel che succedeva dietro le porte chiuse. Questa foto iniziale verrà infatti battezzata Behind closed doors dalla rivista “Time” quando, nel 2016, ne celebrerà l’importanza, inserendola tra le 100 foto più influenti di tutti i tempi.

Per dieci anni Donna Ferrato si dedica, da fotoreporter e giornalista d’inchiesta, a questo argomento: le sue foto diventano un formidabile strumento di denuncia, costringendo la società americana a fare i conti con una realtà difficile da accettare, ma terribilmente diffusa. Le sue immagini sono un pugno nello stomaco, le riviste e i giornali per lo più le rifiutano: non è quella l’America che vogliono raccontare ai propri lettori. Le foto sono il cuore del suo lavoro, documenti visivi inoppugnabili, potenti, ma sono solo l’esito finale di uno scrupoloso lavoro giornalistico d’inchiesta. Donna Ferrato accompagna gli agenti di polizia quando, chiamati dalle vittime, irrompono nelle case, arrestano mariti e compagni violenti, calmano i figli in lacrime; visita gli ospedali e ascolta le storie delle donne abusate; frequenta psicologhe e centri, sia di accoglienza per le vittime, sia di recupero per gli uomini che decidono di affrontare il loro problema. Non si limita a mostrare gli episodi e le conseguenze immediate, ma ricostruisce il percorso della violenza: come nasce, quali gli effetti sulle donne – spesso rassegnate, sovente intente a inventare giustificazioni per gli uomini violenti che continuano a tenersi accanto –  sui bambini, nei quali i semi del comportamento imparato tra le mura domestiche attecchiscono facilmente, spingendoli a replicarlo; ma anche le possibili uscite dal circuito perverso, raccontando le comunità che accolgono donne e figli, creando un riparo e dando loro gli strumenti per ricostruirsi una vita più degna, libera dalla paura.

Nel 1991 una sintesi del suo lavoro confluisce nel libro Living with the Enemy, pubblicato dalla più importante casa editrice americana di fotografia, Aperture; il libro sarà ristampato numerose volte e tradotto in diverse lingue, vendendo qualcosa come 40.000 copie.

Nello stesso anno Donna Ferrato incontra Hillary Clinton, impegnata a fianco del marito nella competizione elettorale per la Casa Bianca, e la sensibilizza sull’importanza di questo tema, portando come prova il suo lavoro. Nel 1994 il Congresso, sotto l’amministrazione Clinton, approverà una severa normativa, il Violence Against Women Act: il lavoro fatto aveva aiutato a far maturare una nuova consapevolezza e se ne potevano raccogliere i primi frutti.

Ormai conosciuta a livello internazionale, Donna Ferrato si dedica anche ad altri soggetti, ma non interrompe l’attività sul fronte della violenza sulle donne: da testimone, con un atteggiamento mai distaccato, ma certo obiettivo e professionale, avverte con il passare degli anni la necessità di prendere una posizione attiva per cambiare le cose. Fonda così un’associazione per sensibilizzare l’opinione pubblica e, nel 2014, avvia la campagna I Am Unbeatable, nella quale presenta il lavoro cui si è dedicata a partire dagli anni dieci del millennio: la storia della giovane Sarah Augusta Jones che, rimasta incinta dopo una violenza a 13 anni, viene convinta a sposare il ragazzo, entrando così in un cupo tunnel, durato 12 anni, di violenze fisiche e psicologiche, isolamento e terrore, concluso con la sua fuga, lasciando al marito i due figli. Sarah saprà però reagire, ingaggerà un’estenuante battaglia legale contro l’ex compagno e otterrà infine l’affido dei figli: davvero imbattibile!

Donna Ferrato intuisce che la testimonianza di Sarah, scontata sulla propria pelle, la rende un potente modello ispirazionale per le donne vittime di violenza, così I am Unbeatable diventa un sito, una mostra itinerante e un libro, per dare corpo e voce al messaggio: se io ce l’ho fatta, contro tutti i pronostici, anche voi potete farcela.

La figura di Donna Ferrato da sola sarebbe più che sufficiente per i miei scopi, ma voglio accennare, rapidamente, ad altri autori, che hanno saputo svelare ulteriori aspetti della violenza sulle donne.

Restando in America, la quasi coetanea Nan Goldin (Washington 1953), nel grande affresco The Ballad of Sexual Dependency (libro, del 1986, e installazione audiovideo itinerante, di cui ho raccontato in occasione della tappa del 2017 in Triennale) dedicato alla comunità underground newyorkese tra fine anni ’70 e inizio ‘80 di cui faceva parte, ci fa conoscere tipologie diverse di violenza, per certi versi più sottili: una dall’esterno, l’altra dall’interno del gruppo. La prima è lo stigma sociale che colpiva la Goldin e le amiche, in quanto donne appartenenti a una tribù dallo stile di vita trasgressivo, contraddistinto da uso di droghe, sesso libero, travestitismo ed esibizione di una sessualità alternativa e queer. La seconda è la violenza, fisica e psicologica, che si sviluppa nel gruppo, rivolgendosi sia verso sé stessi, come comportamento autodistruttivo, sia verso i propri amici e, nel caso specifico, da parte degli uomini contro le proprie compagne. Con la Goldin non siamo di fronte a un reportage, le sue foto sono un documento autobiografico, la testimonianza spietatamente sincera di chi ha vissuto in prima persona, accanto ad altre esperienze, la violenza di cui i membri di quella micro comunità erano al tempo stesso vittime e carnefici, testimoni di un disagio e malessere profondi, pronti a manifestarsi in improvvise esplosioni fisiche come in lente macerazioni personali.

Ma non sono solo donne a essersi fatte carico del dovere civile della denuncia: venendo in Italia, nel 2007, incontriamo la foto No anorexia di Oliviero Toscani, esposta in occasione della settimana della moda. Lo scandalo, le numerose proteste, le voci di indignazione per avere mostrato la allora ventisettenne modella francese Isabelle Caro ridotta a pesare 31 kg sono il corollario di una fotografia coraggiosa e tremenda, che mette il dito sulla piaga, costringendo tutti, e l’ambiente della moda in particolare, a guardare in faccia quella malattia generata dall’imposizione di modelli di bellezza ossessivamente incentrati su corpi snelli, magri, filiformi fin all’impalpabilità, il cui impatto sulle giovani donne in particolare diventa devastante. Un’immagine di comunicazione di un brand commerciale, Nolita, diventa così un potente strumento di autoconsapevolezza della società, costretta a osservare in una sorta di specchio deformato la perversa deriva generata dal proprio immaginario estetico.

È ancora il mondo della moda italiano a esprimere una netta condanna della violenza di genere grazie a Franca Sozzani, allora direttrice di “Vogue Italia”, che dedica interamente all’argomento il numero di aprile 2014, nel quale un servizio del grande fashion photographer americano Steven Meisel fotografa le modelle in complessi set, che riproducono scene di violenza di ispirazione cinematografica. Non mancarono voci critiche che bollarono l’iniziativa come estetizzazione della violenza, ma non si può non avvertire la forza di questa presa di posizione di una delle maggiori testate di moda internazionali, che contravviene con plateale coraggio alla sua finalità, la comunicazione editoriale del fashion, quasi trasformandosi in un magazine a carattere sociale.

Sono solo alcuni ma importanti esempi che la fotografia ha saputo perentoriamente mostrare dei diversi volti che può assumere la violenza sulle donne: quella fisica, la psicologica, l’omertosa – che comprende il silenzio di chi sa e quello di chi preferisce non vedere -, quella infine generata dall’immaginario sociale, dalle sue convenzioni e dai modelli che propone e impone.