SanPa, donne invisibili nella storia della comunità di Muccioli

Vincenzo Muccioli, fondatore di San Patrignano, in una foto d'archivio. ANSA/UFFICIO STAMPA SAN PATRIGNANO ++ NO SALES, EDITORIAL USE ONLY ++

Vincenzo Muccioli, fondatore di San Patrignano, in una foto d’archivio. ANSA/UFFICIO STAMPA SAN PATRIGNANO

Invisibili, marginali nella marginalità, ancillari. Le donne di “SanPa. Luci e tenebre di San Patrignano” – la riuscita docuserie Netflix che ricostruisce la storia della comunità di recupero per tossicodipendenti sorta sulle colline di Rimini e soprattutto del suo fondatore Vincenzo Muccioli – sono un pugno nello stomaco. Perché anche chi non si stanca di studiare, documentare e criticare l’assenza delle donne dalla vita sociale e politica del Paese non può restare indifferente quando la vede rappresentata nella sua crudezza in un documentario che è anche un pezzo di storia d’Italia. Quella che va dalla fine degli anni Settanta alla metà degli anni Novanta. Con le sue piaghe: terrorismo, droga, Aids.

“SanPa” è una storia di uomini e di cameratismo, perché tutti uomini erano i componenti del gruppo dirigente di San Patrignano. Dal carismatico Muccioli all’ex autista Walter Delogu, considerato il “traditore zero” per aver registrato il capo che gli chiedeva di commettere un omicidio per insabbiare quello di Salvatore Maranzano, avvenuto nella comunità. Dall’ex addetto stampa della comunità, il filosofo Fabio Cantelli, ad Andrea Muccioli, il figlio di Vincenzo che ne raccoglie l’eredità. Da Antonio Boschini, ex tossicodipendente poi diventato medico fedelissimo e responsabile terapeutico di San Patrignano, ai 12 strettissimi collaboratori che con Muccioli andarono a processo.

Soprattutto uomini erano i capi dei settori in cui la comunità era suddivisa, nonché gli amici e i sostenitori più accaniti dell’imprenditori riminese, da Gian Marco Moratti a Red Ronnie. Uomini erano i politici che sfilavano alla sua “corte” quando conquistò potere e influenza. Uomini erano anche gli “antagonisti” di Muccioli, che si aprono davanti alle telecamere: l’ex sindaco di Coriano Sergio Pierini, il giudice Vincenzo Andreucci, l’allora responsabile del Sert di Rimini Leonardo Montecchi. Uomo il suo alter ego radicale, l’antiproibizionista Marco Pannella (stesso carisma, stesso egocentrismo). Uomini erano i giornalisti che lo raccontarono: Luciano Nigro, che accompagna l’intera serie con i suoi ricordi e le sue analisi, Enzo Biagi, Giovanni Minoli, Maurizio Costanzo, Indro Montanelli. Uomo era il fratello minore dell’imprenditore riminese: il geologo Pier Andrea, che lo racconta scavezzacollo e appassionato di esoterismo e spiritismo.

Nei 5 episodi della docuserie diretta da Cosima Spender e ideata da Gianluca Neri, che la ha scritta con Carlo Gabardini e Paolo Bernardelli, le donne si contano sulle dita di una mano, conseguenza diretta della loro invisibilità sulla scena del Paese reale e della loro totale assenza ai vertici di San Patrignano. Tra gli ex ospiti intervistati c’è soltanto Antonella De Stefani, che appare – forse non a caso – la più distaccata nel rievocare quel periodo, la meno soggetta all’“incantamento” profondo e duraturo che Muccioli sembra invece aver esercitato sugli altri.

D’altronde, come insegna l’attivista e scrittrice Gloria Jean Watkins alias bell hooks, il margine favorisce prospettive diverse, può trasformarsi in uno spazio di libertà. Di Muccioli, De Stefani dice senza mezzi termini: “Era un misogino”. E di certo colpisce l’intervista in cui il fondatore di San Patrignano, per respingere l’ipotesi che nel reparto manutenzione si commettessero stupri punitivi, fa con la giornalista il “gioco dell’anello”. Le chiede di infilare una matita in un anello che sposta continuamente e poi afferma soddisfatto: “Se lo sposta non entra… Vede come è facile se uno non vuole?”. Riguardare quel botta e risposta con gli occhi di oggi è scioccante, ma le lenti del tempo attenuano il colpo: quarant’anni fa quello di Muccioli era purtroppo pensiero diffuso.

La seconda donna intervistata è Andrea Delogu: la conduttrice televisiva e radiofonica è infatti figlia di Walter, nata e cresciuta per dieci anni nella comunità insieme a suo padre e a sua madre che si sono conosciuti proprio mentre erano in disintossicazione. Un amore sfuggito alle regole, perché a San Patrignano le coppie non erano viste di buon grado. Delogu ha dedicato un libro, “La collina”, alla sua infanzia. E nella docuserie, oltre a difendere suo padre, testimonia in maniera semplice e diretta della forza di quell’amore.

Figlie, mogli. Letizia Moratti appare spessissimo nelle immagini di repertorio accanto al marito Gian Marco. A San Patrignano erano di casa: secondo quanto riferito da Andrea Muccioli, negli anni i coniugi Moratti hanno devoluto alla comunità 286 milioni di euro. Dalla morte di lui, è stata lei a continuare a investire e a difendere la struttura dagli attacchi. Ed è l’unica a comparire nella serie in un ruolo di potere, quello di presidente della Rai, carica che rivestì, prima  donna in Italia, dal 1994 al 1996.

Alla fine di “SanPa” c’è una breve apparizione di Antonietta Cappelli, moglie di Vincenzo Muccioli scomparsa lo scorso marzo: di nuovo lo stralcio di una vecchia intervista in cui dopo la morte di suo marito biasima le accuse nei suoi confronti ed elogia la sua opera, alla quale di fatto Muccioli aveva sacrificato anche la famiglia.

Per il resto, le donne della docuserie sono anonime. Madri disperate e strazianti, le madri degli eroinomani degli anni Ottanta che ricordiamo tutte e tutti, quelle che si aggrapparono a Muccioli come a un salvatore, che protestavano furiose nell’aula del “processo delle catene” quando fu condannato in primo grado per sequestro di persona e maltrattamenti e che sfilarono in corteo alla vigilia del verdetto d’appello che lo assolse. Per moltissime e moltissimi lo fu davvero, un salvatore, nella tragica assenza dello Stato davanti all’eroina che trasformava in zombie intere generazioni. Se il male inflitto a San Patrignano – tra reclusioni, schiaffoni e pestaggi – sia stato un prezzo accettabile, anzi il prezzo da pagare per tutto il bene fatto, è l’interrogativo che “SanPa” volutamente non scioglie, la “verità sfuggente”  (espressione usata da Cantelli) che offre a spettatori e spettatrici.

Poi ci sono loro, le tossicodipendenti ospiti della comunità: le vediamo scorrere a decine sullo schermo. Sono nelle cucine, nella sartoria, intente a servire alle immense tavolate della mensa, sedute a fumare all’aperto, assiepate nelle lunghe dolenti file che si formavano fuori dal cancello di San Patrignano. Le voci impastate dall’eroina, i volti segnati dalla droga anche quando sono bellissimi. È una giovane magnifica donna, Natalia Berla, la seconda suicida nella struttura e in “SanPa” è il gemello Sebastiano a tentare di ricostruire le circostanze mai chiarite che l’hanno portata a lanciarsi da una finestra due giorni dopo un altro ospite, Gabriele Di Paola. È Sebastiano a dirne l’estrema fragilità, il sospetto che fosse stata picchiata e “chiusa” per insubordinazione, che non avesse retto alla violenza.

Ma c’è forse una ragazza che inconsapevolmente assurge a simbolo di tutte: è quella che riesce a scappare ma viene contattata da Red Ronnie e riacciuffata da Muccioli in diretta Tv. Se c’è una definizione esatta di paternalismo, sta in quella scena drammatica, cui si reagisce in bilico tra tenerezza e disagio. Lei completamente senza difese, confusa, disarmata e disarmante. Lui imponente e sornione che la sovrasta e aspetta il suo abbraccio, il suo nuovo abbandono, per riportarla dentro. Da un lato il super padre potente e sicuro, dall’altro la super figlia incapace di salvarsi da sola. Quante volte, ancora oggi, ripetiamo quel copione.

  • Tracez claire |

    Mio figlio e a Sampa ..devo solo ringraziare Muccioli e tutte le donne e i uomini di Sampa….meglio le catene e la severità che la morte ……

  Post Precedente
Post Successivo