Il 2020 nelle foto che non dimenticheremo

Ci lasciamo alle spalle con un sospiro di sollievo questo 2020 eccezionalmente difficile e, mentre ci apprestiamo, timorosi e speranzosi, a entrare nel nuovo anno, se chiudiamo gli occhi quali sono le immagini che rivediamo per prime, proiettate sullo schermo dei nostri ricordi?

Bene, qui di seguito trovate la, ovviamente soggettiva e dunque opinabile, scelta di Alley, in 8 tappei. È il bello di ogni gioco di questo tipo, un gioco che però ha una posta non trascurabile: si chiama memoria (più o meno) condivisa.

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È la notte tra il 7 e l’8 marzo, tutta la Lombardia è appena stata dichiarata zona rossa, all’ospedale di Cremona la dottoressa Francesca Mangiatordi vede una collega, l’infermiera Elena Pagliarini, crollare addormentata alla postazione, sfinita. La foto diventa in breve, come si dice con metafora grottescamente sinistra, “virale”, i media la ripropongono ossessivamente: è il simbolo dell’esplodere dell’emergenza Covid nel nostro paese, avamposto dell’Europa e del resto del mondo.

In questa immagine, scattata con un semplice smartphone non da un professionista, ma da una persona come noi, che ferma un attimo della sua quotidianità, si leggono troppi fatti: la congestione degli ospedali sul punto di collassare, i turni massacranti richiesti al personale sanitario, la costrizione imposta da mascherine, guanti, cuffie e tutto ciò che rappresenta un “dispositivo di protezione personale”, e, soprattutto, la nostra umana fragilità, mai bruciante come in questo momento.

Ci spostiamo di poco, nel tempo e nello spazio: non sono passati nemmeno 20 giorni, siamo un po’ più a nord, sempre in Lombardia. È il 26 marzo e da qualche giorno convogli di camion dell’esercito giungono al Cimitero Monumentale di Bergamo, caricano le bare delle vittime del COVID-19, escono, attraversano la città e si dirigono verso altri centri: il numero dei morti è così alto da avere superato la capacità di ricezione dei forni, bisogna i cremare i corpi altrove. La città e la provincia di Bergamo sono il fronte della battaglia, il virus sta infierendo con una virulenza che lascia sgomenti.

Sono foto come questa, nude, silenziose, macigni pesanti da guardare, l’unica testimonianza possibile.

© Andrew Medichini / POOL / AFP

10 aprile, Roma: è la notte del Venerdì Santo, la notte della Passione di Gesù di Nazareth. Vediamo in quest’immagine un puntino bianco luminoso ai piedi della grande facciata della basilica vaticana: è papa Francesco, celebra la Via Crucis nel deserto di piazza San Pietro svuotata, spazio enorme ed enormemente buio, smisurato, inutile questa notte.

Qualche giorno prima, il 27 marzo, Bergoglio aveva convocato un momento straordinario di preghiera in tempo di epidemia, aprendolo con queste parole: «Venuta la sera» (Marco 4,35). Così inizia il Vangelo che abbiamo ascoltato. Da settimane sembra che sia scesa la sera. Fitte tenebre si sono addensate sulle nostre piazze, strade e città; si sono impadronite delle nostre vite riempiendo tutto di un silenzio assordante e di un vuoto desolante, che paralizza ogni cosa al suo passaggio: si sente nell’aria, si avverte nei gesti, lo dicono gli sguardi. Ci siamo trovati impauriti e smarriti.”

In questa notte di Passione invece il papa decide, irritualmente, di tacere: nessuna omelia, le parole sarebbero inadeguate, la Chiesa si affida alla sola preghiera.

© Tayfun Coskun / Anadolu Agency via Getty Images

Qualche mese è trascorso, la stagione calda si avvicina, ci si illude che la morsa del virus che sta allentando stia per permetterci di voltare finalmente pagina.

Siamo negli Stati Uniti, a New York, è il 2 giugno: l’afroamericano George Floyd è stato ucciso dalla polizia durante l’arresto una settimana prima, il 25 maggio, e da quel giorno un impressionante movimento di protesta ha attraversato il paese e si è diffuso in tutto il mondo, riversando nelle strade centinaia di migliaia di persone, che chiedono a gran voce di mettere la parola fine al razzismo e alla violenza che ne deriva.

Questa foto ci mostra due poliziotti, quello al centro a volto scoperto probabilmente di origine centroamericana, inginocchiati nel gesto di scusa divenuto consueto assieme a due manifestanti di colore: quest’immagine non documenta solo le numerose manifestazioni pacifiche di quei giorni, può essere letta anche come un segno, costruttivo, di una nuova sensibilità che si diffonde nel paese e tra le sue forze di polizia. La validità di questa interpretazione è affidata ai giorni e mesi che verranno, perché il significato di una fotografia non è dato una volta per tutte, ma cambia, intrecciandosi alla storia della società e al suo continuo mutamento.

© Carolyn Cole / Los Angeles Times via Getty Images

Restiamo in America: siamo in pieno autunno, è domenica 7 novembre, Joe Biden festeggia la vittoria nelle presidenziali dal palco di Wilmington, nel Delaware, assieme alla futura vice presidente Kamala Harris. Tutto il mondo ha seguito negli ultimi mesi con attesa e trepidazione l’esito del confronto elettorale: l’era Trump si è conclusa, gli Stati Uniti hanno il 46esimo Presidente della loro storia.

Questa foto mostra con evidenza il profondo cambiamento di stile e comunicazione: Trump è quasi sempre solo sul palco o più raramente accompagnato dalla moglie Melania, si presenta sempre a viso scoperto, occupa il proscenio con fisicità, mimica facciale caricata, esuberanza e ostenta compiaciuto atteggiamenti e modi da uomo della strada.

Biden non è un uomo solo al comando, l’immagine parla di una squadra: il presidente e la sua vice; lui, uomo, bianco di origini irlandesi, quasi ottantenne; lei, donna, giovane, di origini indo-americane per parte di madre, giamaicane di padre, rappresentante perfetta dell’America multietnica. I loro abiti sono sobri e istituzionali, la gestualità misurata, appropriata al ruolo; la mascherina sempre ostentatamente indossata, contro le ambiguità e le oscillazioni sul tema del Covid 19 del loro avversario. Una nuova stagione si annuncia, la foto non mente.

© Aaron Chown – WPA Pool / Getty Images

Il giorno dopo, l’8 novembre, la regina Elisabetta II della casa di Windsor indossa per la prima volta dall’inizio della pandemia la mascherina in pubblico. Pochi giorni prima del Remembrance Day dell’11 novembre, ricorrenza nella quale il Regno Unito omaggia i propri caduti in guerra, la Regina, nell’abbazia reale di Westminster, rende un tributo personale deponendo un bouquet di orchidee e mirto sulla tomba del milite ignoto, seguendo la tradizione inaugurata dalla madre, per commemorare un fratello caduto al fronte.

Nel paese già in travaglio per lo choc della Brexit, operativa dal 31 gennaio, e colpito duramente dal Covid19, la foto dell’anziana monarca vestita di nero, eretta sullo sfondo del meraviglioso abside gotico, davanti a sé la tomba coperta di papaveri rossi su cui spicca il bianco delle orchidee, racchiude diversi potenti messaggi: la continuità della tradizione britannica, il legame profondo tra la monarchia e il popolo, il sacrificio dei caduti, che richiama con forza, attraverso il segno della mascherina, i lutti presenti. A causa della pandemia non ci saranno cerimonie pubbliche nel Giorno dell’Armistizio, ma con il suo gesto la sovrana ricorda e commemora per tutti, con un gesto di regalità e maternità al tempo stesso.

© STAFF / AFP

Il 25 novembre giunge la notizia della morte di Diego Armando Maradona, forse il più grande calciatore di sempre, onore che si contende con Pelé. Un’uscita di scena a 60 anni, in linea con una vita fuori dagli schemi: talento sconfinato, quasi imbarazzante, sul campo, incarnazione del dio del pallone per milioni di fedeli della più diffusa religione laica del pianeta; personaggio controverso nel privato: amato e odiato con uguale accanimento, professionista del masochismo con le frequentazioni di camorristi nella stagione napoletana, le diverse famiglie parallele con tanto di figli non riconosciuti e il lento, inesorabile sprofondare nella dipendenza dalla droga. Ha detto in più occasioni: ho fatto del male solo a me stesso, non ho mai coinvolto nessuno. Era vero; al contrario molti hanno vissuto lautamente alle sue spalle, sfruttandone denaro e carisma. Da divinità, è resuscitato più volte: lo abbiamo visto piangere in trasmissioni che si beavano di mostrare l’idolo infranto, al fianco di capi di Stato che lo ostentavano come un trofeo, ma anche allenatore dell’Argentina di Messi, altro enorme talento, ma troppo diverso. Maradona non ha eredi, non può averne.

La foto che lo ricorda immortala il gol del secolo del 22 giugno 1986 a Città del Messico, durante il quarto di finale dei mondiali Argentina Inghilterra. Maradona ha segnato poco prima il famoso gol di mano (la mano de Dios dirà), quella disonesta furbizia dev’essere in qualche modo riscattata: recupera palla a centro campo, parte verso la porta, salta come birilli uno, due, tre, quattro, cinque avversari (l’ultimo è il portiere Shilton) e in 12 secondi deposita il pallone in rete. Chi ha detto che il calcio è uno sport di squadra? Certamente ora è arte. L’Argentina di Maradona vincerà, ovviamente, quel mondiale, consacrandolo imperatore e dio del calcio.

© Imago / WEREK

L’ultimo mese dell’anno ci porta l’ennesima scomparsa: Paolo Rossi, l’eroe di Spagna ’82, il Pablito nazionale ci lascia il 9 dicembre a 64 anni.

Quel mondiale vinto inaspettatamente dalla nazionale di Enzo Bearzot, inizialmente guardata con diffidenza, ma capace di suscitare un’ondata di entusiasmo con la sua cavalcata trionfale, è stato un segnale di rinascita del nostro paese, che stava uscendo dagli anni di piombo. E Rossi è stato il volto di quell’Italia, antidivo, ragazzo della porta accanto dal fisico non certo da atleta, il cui stesso modo di giocare sembrava la sigla della sua personalità: i gol di Paolo scaturivano spesso da mischie in area, nelle quali sgusciava tra i difensori e, con un tocco beffardo, sovente sporco, imprimeva la traiettoria giusta per buttare la palla in rete, cogliendo tutti, perfino le telecamere, di sorpresa, tanto è vero che certe volte capivi che il tocco decisivo era il suo solo nel replay. Nonostante il mondiale vinto da capocannoniere, il pallone d’oro (secondo italiano dopo Gianni Rivera), i successi con la maglia della Juventus, Rossi ha sempre mantenuto un profilo basso, da uomo solido, che ha saputo affrontare diverse traversie, dagli infortuni – trascorreva i lunedì sul divano, con le borse del ghiaccio sulle ginocchia, avendo collezionato 3 operazioni del menisco a neanche 20 anni – all’amara delusione per essere stato squalificato, pur non avendo commesso illeciti, nello scandalo delle scommesse clandestine.

La foto che abbiamo scelto ce lo mostra esultante, mentre si avvicina a Marco Tardelli per abbracciarlo (sulla sinistra Ciccio Graziani): è l’11 luglio 1982, l’Italia ha battuto 3 a 1 la Germania Ovest e Nando Martellini ha appena scandito tre volte il suo “campioni del mondo” nella notte di Madrid. Neanche a dirlo, il gol che ha sbloccato la partita è stato di Paolo Rossi. Grazie Paolo.