Ciripò si sente alle corde. Ciripò non si sente amato. Anzi, è sicuro che quello che fa non interessa a nessuno. A volte pensa che, se lui non ci fosse, se potesse scomparire da un momento all’altro, nessuno si accorgerebbe della sua mancanza e tutti vivrebbero a loro agio. Fa sempre questi pensieri tristissimi, quasi disperati, giorno e notte: tutti si sentirebbero liberati dal suo ingombrante peso quotidiano. Rannicchiato, ripensa ai suoi compagni che lo guardano con disgusto e lo prendono in giro, ricorda la paura e l’ansia che prendono il sopravvento, lo assalgono di nuovo e lo fanno sentire insicuro, senza fiducia in se stesso e negli altri. Lui stesso si odia e pensa di non valere niente.
Questa è la storia di Ciripò, raccontata in un libro illustrato per bambini, scritto da Giuseppe Maiolo e Giuliana Franchini. Il protagonista è un gattino che deve navigare a vista tra i mille scogli e le conquiste dell’età dello sviluppo. Ci penso spesso quando entro in classe e guardo i miei alunni. Cosa nasconde quel mal di pancia? Quegli occhi tristi cosa vogliono dirmi? Come stanno veramente i bambini? Mi impaurisce il non detto, il sommerso, quello che intuisco sembra non essere abbastanza. Una domanda che sembra scontata e che invece deve porci sull’attenti perché le risposte, anche quelle, sembrano scontate. Sto bene, va tutto bene. E magari non va bene niente.
Quanto è difficile educare oggi. Anche questa è una frase che ripeto spesso nella mia mente. Gli alunni nelle classi, oggi, non sono uguali a quelli di dieci o venti anni fa. La società ha subito dei mutamenti profondi e il percorso di sviluppo e di crescita che i bambini devono compiere è cambiato velocemente. I bambini e le bambine sono abituati a ricevere sollecitazioni multiple, sensoriali, sociali, culturali, emotive e relazionali, dovute ai progressi della tecnologia. Questo cambiamento epocale deve far riflettere gli adulti che devono sforzarsi di cambiare il proprio punto di vista che non può non tenere conto che i bambini e i ragazzi hanno una costellazione di relazioni che va ben oltre la famiglia e la scuola.
I bambini non sanno dare un giudizio a se stessi. Per questo pensano di essere per come vengono visti. Attraverso le relazioni, il bambino plasma l’idea che ha di sé. Da piccolo giocano un ruolo fondamentale la famiglie e le figure di attaccamento. La scuola diventa il secondo gradino del campo relazionale, dove entrano in gioco altre figure di significative, docenti, educatori e gruppo di pari. Se pensiamo a quante ore gli alunni trascorrono in classe, si comprende quanto grande sia la portata e la rilevanza delle relazioni sociali che essi intraprendono con i docenti e con i compagni. Il bambino inizia a pensare a sé, come persona, attraverso i feedback che raccoglie dai rapporti che costruisce anche al di fuori della famiglia. Se al bambino viene ripetuto spesso di essere incapace a svolgere un compito, penserà di non essere capace a far nulla, di valere poco, di non essere meritevole di affetto e attenzioni. La demotivazione è una spinta verso la rabbia, la frustrazione e verso comportamenti autodistruttivi o aggressivi.
Ma se la nostra generazione aveva la preoccupazione di piacere ai maestri, alle maestre e ai compagni di classe, oggi, si entra in una dimensione molto più ampia. Le relazioni si ramificano attraverso la rete, gruppi whatsapp, chat, social e l’idea del sé si forma anche attraverso il numero dei like ricevuti o non ricevuti. Per chi si occupa di formazione ed educazione, dunque, la sfida diventa di portata enorme perché si entra in mondo sconosciuto e non conoscibile, di non facile interpretazione e di difficile gestione e controllo. Ciripò, il protagonista della favola, stava male, ma non sapeva come dirlo. I segreti pesano come macigni e il non detto diventa un ostacolo insormontabile. Ciripò è stato vittima di bullismo, di atti caratterizzati da condotta prepotente, vessatoria, umiliante e violenta. Oggi, con la possibilità di ampliare la rete di connessioni sociali attraverso internet, il bullismo ha preso una forma più preoccupante e meno sondabile: il cyberbullismo.
Se ne parla nelle scuole, nelle famiglie con giustificato allarmismo perché ci si chiede come può essere che una comunità sconosciuta possa avere un impatto emotivo così potente da condizionare scelte, credenze e immagine di sé. La domanda che spesso ci poniamo è: cosa possiamo fare? Sicuramente, dovremmo abbandonare l’atteggiamento sconcertato e abbandonare l’idea del mondo come lo abbiamo vissuto noi, che non siamo nativi digitali. Tutto è cambiato, ma noi? La scuola deve poter essere l’alternativa. L’insegnante deve tornare ad essere interessato e interessante, mettendosi in gioco, studiando e conoscendo ciò che ci spaventa. Gli adulti devono essere figure significative, persone che aiutano, che sanno stare a fianco, che sanno dare e prendere fiducia. Essere adulti che accompagnano la crescita. Lo sconcerto e la paura, così come il proibizionismo, non sono le armi che aiutano a orientarci nel mondo infinito del web.
Occorre invece diventare “specchi positivi”, maestri e maestre che sanno praticare carezze educative, adulti consapevoli e informati, perché altrimenti, avremo “una grande corresponsabilità dovuta all’ignoranza”, come suggerisce la professoressa Lucangeli, docente ed esperta di psicologia dello sviluppo. Conoscere e agire. Assumersi la responsabilità educativa di portare i piccoli a compiere un processo di regolazione emozionale, in cui le emozioni negative, come ansia, paura, angoscia, rabbia, possano essere compensate da risposte positive: aiuto, conforto, condivisione, empatia, inclusione, passione, curiosità, interesse. A scuola si può combattere il bullismo, lavorando sul rafforzamento dell’autostima, creando costellazioni di esperienze e memorie positive, astenendoci dall’essere solo insegnanti\trasmettitori di competenze o impietosi giudici. L’educazione emotiva, se iniziata già con alunni molto piccoli, può fornire senza dubbio gli anticorpi giusti per affrontare le sfide e le difficoltà che si possono incontrare nel percorso di crescita e di evoluzione della socialità.
Ciripò, alla fine, decide di parlare, di liberarsi del segreto che lo opprimeva e capisce che parlando può essere aiutato a difendersi e a superare. Questa consapevolezza può essere insegnata, gia nella scuola dell’infanzia. Potrebbe sembrare prematuro o fuori tempo, ma non è così. L’educazione affettiva inizia dalla nascita e deve esse un percorso continuo: si possono ricreare in classe delle occasioni e delle esperienze che stimolano l’attenzione alle emozioni, alla comunicazione, all’empatia. I giochi di ruolo e finzione, ad esempio, possono essere sperimentati insieme all’insegnante per permettere agli alunni di apprendere direttamente, attraverso gli sguardi, gli abbracci, le carezze, i sorrisi, il pianto. Perché, se ci pensiamo bene, la vera forza del cyberbullismo è proprio l’assenza di fisicità. L’oppressore non ha contatti con la vittima, se non virtuali. Le ferite, però sono reali. Cerchiamo allora di ritornare all’umano, potenziando l’esperienza del contatto fisico, puntando sul dialogo emozionale e l’ascolto attivo. Cerchiamo di essere fari accesi, nel mare del web e delle interazioni virtuali, di essere porti sicuri, adulti consapevoli. Meno preoccupati e più occupati ad essere specchi positivi.