Alzi la mano chi ha voglia di diventare vecchio. Eppure tutti vogliamo vivere a lungo. E, come dice Frank Ostaseski nel suo libro “Cinque Inviti” (ma non lo dice solo lui):
“Nessuno uscirà vivo da qui”.
Di quel che succede negli ultimi anni della nostra esistenza, periodo che va allungandosi di anno in anno – secondo l’economista Lynda Gratton i bambini nati in questo decennio vivranno in media 100 anni, ma già oggi noi viviamo quasi il doppio delle persone nate all’inizio del secolo scorso – insomma di questa fase di vita che ci vede, sempre più numerosi, diventare improduttivi e rallentare, si parla poco e mal volentieri.
Ancora una volta il marketing precede la cultura, e da un po’ di tempo vediamo capi canuti nelle pubblicità di viaggi, servizi, beni di consumo: gli anziani stanno diventando la fascia di popolazione più numerosa e rischiano di essere anche la più ricca, grazie alla “logica della cicala” che ha regnato sovrana dalla fine dello scorso millennio fino all’altro ieri. Eppure gli adulti guardano mal volentieri a “quel futuro là”: è un po’ come il confine di una terra piatta da cui abbiamo paura di precipitare, e con cui iniziamo a confrontarci solo quando a diventare vecchi sono i nostri genitori (un recente report dell’Istat dice che in Italia quasi tre milioni di persone si prendono cura di familiari malati, disabili o anziani). Il motivo di questa ritrosia lo troviamo facilmente se apriamo una parentesi sull’aggettivo “vecchio” e su ciò che ci fa venire in mente: quali sono, infatti, i suoi sinonimi?
Secondo il dizionario Treccani, se parliamo di una persona i sinonimi di “vecchio” sono: (lett.) annoso, anziano, attempato, avanti negli anni, (poet.) prisco (ant., poet.) veglio. (lett.) vetusto.
Le cose vanno un po’ peggio se estendiamo la definizione a “ciò che ha le caratteristiche fisiche della vecchiaia: un viso v.; un organismo v. e stanco ≈ appassito, avvizzito, invecchiato, senescente, senile, sfiorito, svigorito, vizzo”.
Infine, tocchiamo il fondo quando ci riferiamo a “ciò che ha le caratteristiche psicologiche della vecchiaia: un animo, un cuore v. ≈ fiacco, senile, spento”.
Tutti vorremmo andare avanti negli anni, e per farlo ci starebbe anche bene diventare “attempati”, ma chi mai vorrebbe sfiorire, avvizzire o ritrovarsi con un cuore fiacco e spento?
Quindi essere vecchi è un tabù, la linea di confine tra l’età adulta e la vecchiaia si sposta sempre più in là (va detto che su questo il nostro sistema pensionistico è all’avanguardia) e fioccano definizioni alternative: senior, terza età, ageing… ma di una cosa siamo sicuri: se ci va bene, è lì che arriveremo. E allora perché non lavorare sul significato della vecchiaia da prima, finché abbiamo il potere di farlo, anche se ancora non ci riguarda direttamente? Perché lasciarci intimidire dal nostro stesso futuro, con quel sollievo un po’ inutile che prova chi inizia col “mandarci gli altri”? Non sto parlando di risorse economiche: sappiamo che lo Stato italiano destina più risorse alla vecchiaia che alla giovinezza. Sto parlando proprio di cultura: di quell’idea condivisa e silenziosa che ci fa accettare che sinonimo di vecchio sia appassito, per non dire usato, per non dire inutile e da buttare.
“Vecchi leoni”, titolava un libro di Fulvio Scaparro che faceva proprio questo tentativo: “Vecchi leoni e la loro irresistibile alleanza con i giovani”. Anche quella sembra che l’abbiamo persa, l’alleanza tra generazioni, che era “la speranza di una vita davvero degna di essere vissuta”, nelle parole del vecchio psicologo.
Così, tra bambini che nascono sempre meno perché non fanno parte del disegno di una vita sostenibile degli adulti che potrebbero volerli, giovani che non hanno spazio né speranza e restano “dipendenti” anche fino a 40 anni, vecchi che diventano dei “pesi” e proiettano l’ombra di un futuro che fa paura, ci resta appena una fetta sottile di vita attiva e consapevole (venti anni? venticinque?) in cui abbiamo la possibilità di darci da fare per ripensare alle definizioni che ci stiamo dando. Perché questa è la nostra vita.