Dall’elefante al topolino: le sentenze sui casi di violenza contro le donne nelle aule giudiziarie

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Cosa succede alle donne vittime di violenza che, dopo la denuncia, affrontano un processo? Come sono organizzate le procure e i tribunali? Il problema non è da poco e lo stesso Consiglio superiore della magistratura ha dettato precise e puntuali linee guida per la trattazione dei casi di violenza di genere e per garantire un adeguato trattamento alle vittime.

Se le linee guida del Csm fossero applicate in maniera puntuale, concordano legali e associazioni, molte delle criticità che emergono nei procedimenti potrebbero essere superate. Certo, ci sono anche norme che possono essere migliorate e alcune proposte attualmente al vaglio delle Camere vanno in questa direzione. Per esempio, mette in evidenza Nicoletta Parvis, avvocata penalista, esperta di reati contro le donne e i minori, «mancano strumenti per la messa in sicurezza di quelle donne maltrattate o minacciate che non versano in casi di gravità tale da potere o volere direttamente ricorrere a strutture protette», ma che sono comunque in pericolo. Anche per Elena Biaggioni, legale della rete di avvocate dei centri anti violenza D.i.Re., «non bisogna pensare che esistano solo i casi ad altissimo rischio. Si legifera solo su questi, e quelli che non lo sono restano lasciati a se stessi. Ma sono la maggioranza e possono diventare ad altissimo rischio se non si interviene subito». Altro punto su cui tutti gli attori sono concordi e che il Csm stesso mette in evidenza, così come fa il piano nazionale anti violenza, è la necessità della specializzazione non solo delle forze dell’ordine ma anche dei magistrati inquirenti e di quelli giudicanti, dei legali e dei consulenti.

«A volte – racconta Sabrina Pagliani, avvocata della Casa delle donne di Bologna – le vittime che decidono con fatica di denunciare si ritrovano davanti persone che non le comprendono: “Signora – mi è capitato di sentire – vada a casa e metta le cose a posto con suo marito”». Le conseguenze di una mancata conoscenza del fenomeno della violenza di genere sono gravissime: la tenuità delle condanne rispetto a impianti probatori anche molto corposi è uno dei problemi che emerge più spesso dall’analisi degli iter processuali nei casi di violenza di genere. «I dati mostrano che il tasso di condanne è basso – dice l’avvocata Biaggioni – e soprattutto condanne non gravi, tantissime a pena sospesa». L’avvocata Pagliani sottolinea che spesso «al maltrattante non succede niente, soprattutto se è al primo reato. Colpiscono tutte quelle sentenze che partono da denunce pesantissime e arrivano magari a una sentenza per lesione, con un forte ridimensionamento del caso in aula». Non solo: se la donna non è adeguatamente supportata, può non farcela a reggere psicologicamente le implicazioni e le conseguenze di un processo. Il sostegno alla donna, la comprensione di come funziona il ciclo della violenza (descritto nel 1979 da Lenore Walker e supportato da un’ampia mole di studi ), la consapevolezza dei rischi e delle peculiarità della violenza di genere sono elementi imprescindibili della formazione degli operatori.

Ma torniamo al divario che emerge tra impianti accusatori e sentenze: due differenti recenti ricerche dell’Università di Milano-Bicocca si sono concentrate sul tema, partendo dalla giurisprudenza del tribunale di Milano in un caso e dei tribunali di Milano, Como e Pavia, nell’altro. Le indagini puntano il dito sull’inadeguatezza del reato di maltrattamenti (articolo 572 del Codice penale) per questo genere di reati. In questa fattispecie, infatti, non rientrano le ipotesi nelle quali non sia evidente la posizione di soggezione o sottomissione della vittima. Non solo, la prevaricazione e la violenza deve anche essere abituale, non episodica. Al di fuori quindi di questi casi specifici, la violenza domestica non viene riconosciuta come maltrattamento tra familiari o conviventi. Si passa quindi a singole figure di reato (percosse, lesioni personali, minaccia), che non colgono la complessità della violenza di genere e che oltretutto sono subordinate alla querela della persona offesa. «Sottratta all’ambito di operatività del reato di maltrattamenti contro familiari e conviventi e la violenza domestica rischia di diventare ancora più invisibile nelle aule di tribunale», si legge nell’indagine. Per Massimiliano Dova, ricercatore di diritto penale nell’Università di Milano-Bicocca, «l’aspetto di maggiore rilievo è la mancanza di sostegno nei confronti della vittima di violenza nelle relazioni affettive. Nella maggioranza dei casi queste donne subiscono violenze per lungo tempo prima di denunciare. Quando lo fanno vengono spesso lasciate sole. La prova del fatto di reato è lasciata solo alle loro dichiarazioni. Tra la denuncia/querela e le dichiarazioni nel processo passa troppo tempo». Non solo: «In alcuni casi – dice Dova – sono persino i giudici ad assumere le vesti di mediatori familiari: non è infrequente la richiesta del giudice rivolta alla vittima circa la sua disponibilità a rimettere la querela». E così dal reato di maltrattamenti si passa a fatti episodici di lesioni, di percosse o di minacce, con un evidente ridimensionamento.

Molto spesso, poi, l’iter si conclude con condanne con pena sospesa: «Se la donna si sente “protetta” finché è in corso il processo – spiega l’avvocata Parvis – specie se viene applicata una misura cautelare, la condanna a pena sospesa (generalmente vissuta dall’imputato come una vittoria) riporta “liberamente in circolazione” il potenziale aggressore, spesso ancora più forte e motivato». Per le vittime, che nel rivolgersi alla giustizia non cercano tanto una sentenza severa per il compagno o l’ex compagno quanto una tutela per se stesse e per i loro figli, questo si traduce «in un forte senso di ingiustizia e di abbandono». Il problema, dice Fabio Roia, presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Milano che di occupa da anni di violenze sessuali, maltrattamenti e stalking, è che «in Italia solo il 13% dei magistrati è specializzato in questa materia. La formazione è fondamentale». Roia sottolinea che «la parte lesa ha spesso ambivalenza di sentimenti, fa racconti a cascata, non sovrapponibili». In un processo dove pubblico ministero, avvocati e giudici non sono adeguatamente preparati, si può arrivare a ritenere non attendibile una donna che invece lo è. La soluzione, per Roia, è «come dice il Csm, puntare sulla specializzazione dei giudici».


*** Il brano è tratto dall’ebook #hodettono pubblicato lo scorso 8 marzo con Il Sole 24 Ore. La presentazione dell’ebook si terrà il prossimo 13 maggio alle ore 18.00 presso la sede del Sole 24 Ore a Milano

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