Lavori di cura: tutti d’accordo sulla divisione equa fra uomini e donne. Ma la realtà non è così

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La crescita della partecipazione femminile al mercato del lavoro è stata costante e rilevante nell’ultimo mezzo secolo in Italia come in tutti i Paesi industrializzati. Ce lo dicono i numeri e si vede a colpo d’occhio nei grafici relativi al tema. A tale proposito George Stigler (1990) ha scritto che l’entrata delle donne nella popolazione attiva «è stata di così vasta scala da costituire probabilmente il maggior cambiamento di questo secolo del mercato del lavoro americano» e Claudia Goldin (2006) ha efficacemente sottolineato la rilevanza di questa progressiva espansione dell’offerta di lavoro femminile definendola “la rivoluzione silenziosa”.

Figura 1 – Numero indice dei tassi di attività per sesso delle persone in età 25-64 anni (Italia, 1977=100)

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Il lavoro delle donne si intreccia a doppio filo ai cambiamenti sociali che abbiamo vissuto. Con la massiccia entrata delle donne nella popolazione attiva, i due ambiti istituzionali della famiglia e del mercato del lavoro, ad esempio, non sono più rappresentabili separatamente, e la loro interazione pone con forza la questione della conciliazione dei tempi di vita e di lavoro; di conseguenza, anche le norme sociali sul ruolo delle donne nell’economia sono andate modificandosi nel tempo in modo più favorevole alla presenza femminile in ogni settore di attività e nei percorsi di carriera (Raquel Fernandez 2013).

In una sezione dell’indagine “I tempi della vita quotidiana”, specificamente dedicata agli stereotipi di genere, l’Istat rileva le opinioni di uomini e donne sulla divisione dei ruoli e sulla condivisione delle responsabilità familiari tra i coniugi, e, in particolare, rileva le opinioni sul grado di apertura degli intervistati a ruoli più simmetrici nelle coppie. I dati relativi agli individui in coppia con figli, in cui entrambi i partner sono occupati, e lei è in età compresa tra 25 e 44 anni, mostrano che l’affermazione “se lavorano entrambi a tempo pieno, l’uomo deve svolgere la stessa quantità di lavori domestici della donna” trova d’accordo il 75% degli uomini e l’81% delle donne. Anche i dati Eurostat confermano questo risultato. L’indagine “Gender Equality 2017” mostra che nel nostro Paese la percentuale di individui che dichiarano di approvare il comportamento di un uomo che divide a metà con la moglie il carico del lavoro domestico e di cura è pari all’82%.

L’Istat pubblica anche, nella sezione “Vita quotidiana e opinione dei cittadini”, i dati relativi al tempo effettivamente dedicato da uomini e donne al lavoro familiare, e in particolare al lavoro domestico (in percentuale delle 24 ore). I dati mostrano che le donne in età 25-44 anni, in coppia con figli, che sono occupate come il loro partner, dedicano mediamente ogni giorno al lavoro familiare il 21,6% del proprio tempo, (di cui il 12,8% per il lavoro domestico). Gli uomini invece dedicano rispettivamente 9,5% e 4,1% del proprio tempo a queste attività. Quando entrambi i coniugi lavorano per il mercato, il lavoro familiare (sia domestico sia di cura) non si distribuisce dunque in modo paritario: le donne dedicano a questi compiti più del doppio del tempo che vi dedicano i loro mariti, e più del triplo se si considera solo il lavoro domestico.

Esiste un contrasto tra la divisione del lavoro domestico ritenuta equa (e quindi auspicabile) e quella osservata nella realtà (si veda il garfico qui di seguito). Se le persone in coppia concordano nell’affermare che le faccende domestiche dovrebbero essere divise in modo paritario quando entrambi i coniugi sono occupati, e se c’è generale approvazione per coloro che si comportano in questo modo, perché i dati mostrano una realtà diversa? Qual è l’ostacolo che impedisce una ripartizione meno asimmetrica del lavoro familiare?

Figura 2 – Percentuale di lavoro domestico svolta dalle donne effettivamente e percentuale ritenuta equa dalla maggioranza della popolazione.

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Una possibile spiegazione è che l’organizzazione del lavoro nelle aziende non abbia ancora fatto per bene i conti con la “rivoluzione silenziosa”, e che tenda ad ignorare le responsabilità di cura delle persone che ne fanno parte. Osserva Riccarda Zezza, imprenditrice e contributor di Alley Oop, che “la conseguenza di questi comportamenti obsoleti sono costi altissimi, in parte chiari e in parte occulti”.

Il lavoro di cura è stato a lungo un problema invisibile per i leader aziendali, specialmente tra i manager le cui carriere sono iniziate quando gli uomini si concentravano nella produzione per il mercato e le donne si facevano carico di tutte le esigenze di cura. Ma una recente ricerca di Harvard sottolinea che attualmente il 73% dei dipendenti afferma di avere responsabilità di cura, e il 32% di loro dichiara di aver lasciato un lavoro perché incompatibile con tali responsabilità (in maggioranza giovani, maschi, e senior executive).

Ecco, a fronte di questa “rivoluzione silenziosa”, che cambia la struttura stessa della famiglia e del mercato del lavoro, dovrebbe cambiare anche l’organizzazione del lavoro. Come osserva Riccarda Zezza, “si tratta di cambiare proprio lo sguardo e la cultura, e rendere la dimensione della vita apertamente presente nel disegno del ciclo lavorativo. Tappe di vita previste e prevedibili disegnate insieme a tappe di carriera. Abbracciate, come lo sono già nella vita di tutti noi da moltissimo tempo ormai”.