Identità e migrazione: i dispacci dalla frontiera di Francisco Cantù

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Che cosa vogliamo proteggere veramente quando proteggiamo una frontiera? Conosciamo il prezzo da pagare per questa protezione? Abbiamo idea di chi sia a pagarlo realmente, e quanto?

Francisco Cantù ha scritto un libro che fa male in molti modi. Perchè per rispondere a queste domande con la spietata sincerità con cui lo fa lui, non è sufficiente fermarsi a leggere racconti o reportage giornalistici, nemmeno attraversare come turisti di passaggio i luoghi e i tempi del dolore. Occorre immergersi nella quotidianità, nella banalità del male, per osservare cosa accade. Alla mente, al corpo, allo spirito di chi è esposto alle contraddizioni dei reati di immigrazione.

Cantù è un cittadino statunitense con origini messicane per parte di madre. All’inizio della storia raccontata in questo libro, è un giovane laureato in diritto internazionale, con una carriera come giornalista e studioso davanti a sè, quando decide di fare una scelta estrema: arruolarsi nei corpi di polizia di frontiera tra USA e Messico. Lo spiega a sua madre nelle prime pagine del libro, anche se in qualche modo è lei a spiegare a lui perchè lo fa: sono mossi dallo stesso intento, quello che spinse lei a diventare ranger in Arizona, perchè, dice, “volevo proteggere i luoghi che amavo”.

La differenza è che alla frontiera Francisco ha vissuto a contatto costante con la morte, la paura, l’ansia dei dispersi, l’orrore degli assassinii, il caldo che cuoce la pelle, il cattivo odore dei corpi che hanno vagato per giorni nel deserto, la follia delle traversate estive, le vesciche sui piedi da curare. Francisco sa di rappresentare proprio quella legge che costringe questi migranti, queste persone, a mettersi in tali condizioni mortificanti. Ma allo stesso tempo cerca di conservare la propria umanità, interrogandosi ogni giorno, di fronte a quegli occhi smarriti e spaventati, di fronte ad alcuni colleghi inopportunamente irrispettosi, su come salvaguardarsi, su come non rendere l’orrore irriconoscibile tra le pieghe della quotidianità.

Le prime due parti del libro sono dei resoconti del suo periodo come poliziotto: sulla frontiera inizialmente e negli uffici dell’intelligence poi. Nella terza parte Francisco è uscito fuori da quella vita e incontra Josè, un immigrato clandestino che cade nella rete della migra e viene rimandato in Messico. Il caparbio tentativo di Cantù di riportarlo in America dalla famiglia e dai figli, non ha il sapore nè di un’espiazione nè tantomeno di una redenzione. È ancora solamente un resoconto: della minaccia che ancora aleggia sulle vite di chi ce la fa, a passare quella frontiera, ma vive una vita guardinga, fatta di ansia e di imprevisti che cambiano tutto da un momento all’altro, nell’attesa di una normalità che forse non arriverà mai.

“È difficile assistere alla vita di un uomo che finisce in pezzi. Molta gente che lavora all’immigrazione sembra aver perso la propria umanità. Lo vedo tutti i giorni. Gli agenti della polizia di confine, gli sceriffi che entrano ed escono da quella porta, scordano sempre che si tratta di persone, di persone in carne e ossa.”

E Cantù, con i suoi incubi ricorrenti di lupi e denti rotti ci racconta che il prezzo di questo dolore lo pagano anche i poliziotti, che per sopravvivere devono rinunciare a una forma di umanità. Per difendere cosa? Confini, barriere innaturali disegnate a tavolino: quella tra Messico e USA nel 1800, più volte modificata, estesa per oltre 2000 chilometri. Labile, capricciosa, cristallizzata in quel muro che i messicani chiamano “della vergogna”. Ogni anno più di 500 mila persone tentano di attraversarla illegalmente. Ma Cantù utilizza questo libro, nè romanzo, nè reportage nè saggio, per riflettere su cosa sia la condizione del migrante in generale, passando anche per il Mediterraneo. Spiega che nelle nostre società il passaporto e il visto di ingresso sono i modi in cui viene riconosciuta la vita umana e le viene assegnato valore. “L’identità è stabilita dall’identificazione”. In quanto cittadini del primo mondo, godiamo di un privilegio nel possedere un’identità verificata. E continua:

“La libertà di movimento di cui siamo in possesso ci libera dal peso opprimente dell’identità del migrante, ci libera dalla paura che le nostre vite potranno essere definite dal fatto di essere sprovvisti dei documenti e sottoposti alla costante minaccia di arresto, rimpatrio, anonimato.”

Bisogna tenerlo a mente, quando discutiamo di Ius Soli mentre siamo circondati da bambini che diventano giovani e poi adulti con quel senso di inappartenenza e di privilegio proibito che sperimentano ogni giorno con le proprie famiglie. Una condizione subdola di cui Cantù ci porta ad esplorare le pieghe più dolorose, mostrando Josè abbruttirsi tra un processo e l’altro mentre i suoi figli non lo riconoscono più.
La voce di Cantù è affilata e malinconica, curata dall’appassionata traduzione di Fabrizio Coppola. Una testimonianza quanto mai necessaria in questo momento, valida per tutte le frontiere.

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Francisco Cantù
Solo un fiume a separarci – Dispacci dalla frontiera
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