Di Flavia Landolfi e Manuela Perrone
M. ha solo nove anni, vive a Roma, ama lo sport, è un piccolo genio della matematica. E corre un rischio: in qualsiasi momento, all’uscita da scuola potrebbe trovare ad aspettarlo i carabinieri. Perché M. è un bambino reclamato da entrambi i genitori ex conviventi, talmente reclamato che i giudici potrebbero decidere di sottrarlo alla madre e di collocarlo in una casa famiglia. Questo suggerisce la consulenza tecnica d’ufficio chiesta dai giudici, nonostante i certificati medici che diagnosticano una malattia autoimmune, le rassicurazioni delle maestre che lo hanno descritto come un bambino sereno e diligente e le sue stesse parole raccolte dai magistrati ai quali ha chiesto tra le lacrime di non portarlo via, di lasciarlo con la sua mamma, con i suoi nonni.
La vicenda di L., madre del piccolo, sta facendo il giro dei social grazie a un suo video pubblicato su Facebook e lanciato in rete come una bomba. L. si scaglia contro i periti e si rivolge al presidente della Repubblica Sergio Mattarella e al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede per chiedere protezione da un intero sistema che ritiene vessatorio, tale da scavare una crepa profonda nella fiducia nelle istituzioni. Tutto nasce da una battaglia sull’affidamento del bambino senza esclusione di colpi: denunce, querele, ricorsi, come da copione. Una guerra legale che si trascina da sei anni e che potrebbe concludersi con un verdetto, quello raccomandato dalla consulenza tecnica d’ufficio al giudice che aveva esplicitamente chiesto la Ctu per appurare quale strada fosse percorribile per riavvicinare M. al padre.
La soluzione proposta dalla Ctu è il riconoscimento in capo alla madre di alienazione parentale, una specie di mobbing genitoriale che avrebbe il potere di innescare in un bambino il rifiuto di uno dei due genitori. Una sorta di lavaggio del cervello, insomma, che renderebbe del tutto incapace il minore di capire qual è la sua volontà e che agli occhi di alcuni psicologi, sempre più spesso periti dei giudici, lo squalifica e lo imbavaglia rendendo carta straccia parole, desideri e richieste esplicite.
Le dichiarazioni rese dal piccolo M. e registrate da assistenti sociali e periti sono univoche: il bambino ha difficoltà a incontrare il padre, manifesta timori, al punto che i servizi sociali hanno dovuto monitorare gli incontri in uno spazio protetto. Da qui l’escalation della guerra legale tra i genitori e infine il parere tecnico che “diagnostica” l’alienzazione genitoriale e raccomanda: allontanamento dalla madre, casa famiglia, terapia per separarlo dalla mamma. Perché la “medicina” prescritta in quei tribunali dove l’alienazione genitoriale trova riconoscimento si chiama allontanamento. Con annesse misure drastiche messe nero su bianco, come nel caso di M.: nessun contatto con la propria madre, inizialmente nemmeno al telefono, fino a recupero del rapporto con l’altro genitore. Un “resettaggio”.
“Ma la teoria dell’alienazione parentale, oltre a non essere riconosciuta dalla comunità scientifica internazionale è stata dichiarata priva di fondamento scientifico dal ministero della Salute nel 2012 e a più riprese anche dalla Suprema Corte di Cassazione”, ricorda Lorenzo Stipa, l’avvocato di L. “Nei processi in cui sono coinvolti i minori pertanto è imprescindibile valorizzarne la volontà e le dichiarazioni che devono essere elemento principale per fondare il convincimento del giudice circa le pronunce di affidamento, come previsto anche dalla Convenzione di New York e di Strasburgo”.
Il Ddl Pillon, dal nome del senatore leghista primo firmatario, su cui sono in corso le audizioni in commissione Giustizia al Senato, punta per la prima volta proprio a codificare l’alienazione parentale in nome della “bigenitorialità perfetta” che si prefigge come obiettivo. Contro le nuove norme sono insorti avvocati, associazioni, giudici, persino il Garante per l’infanzia. Per gli stessi dubbi di compatibilità con la Convenzione di New York espressi da Stipa, e con quella di Istanbul contro la violenza domestica. A sostegno del Ddl si sono invece espresse le associazioni dei padri separati.
Sulla vicenda di L. Maison Antigone ha aperto una raccolta di firme e Differenza donna ha preso posizione: «Esistono criticità importanti sulle consulenze tecniche d’ufficio all’interno dei procedimenti civili su cui è arrivato il momento di confrontarci – dice Elisa Ercoli, presidente dell’associazione Differenza donna -. Una donna in uscita da situazioni di violenza può trovarsi in circostanze in cui è lei a doversi difendere, ad avere una valutazione negativa sulla propria capacità genitoriale ed essere messa sotto accusa. Troviamo particolarmente grave che in queste circostanze si parli di alienazione parentale dando credibilità ad una teoria che non ha nessun fondamento scientifico». Differenza donna tuona contro «la grande violazione dei diritti umani delle donne, la violenza agita dalle istituzioni che si aggiunge a quella agita dai singoli uomini, e a questo reagiremo con tutta la nostra determinazione».